Nuova mossa di Trump: Gerusalemme capitale di Israele.

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La decisione del Presidente degli Stati Uniti, Trump, di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di trasferirvi l’ambasciata americana da Tel Aviv ha fatto notizia in tutto il mondo. Tra le principali reazioni troviamo naturalmente quelle della zona interessata, da Israele all’Autorità Palestinese, da Hamas alla Turchia, con interventi anche di esponenti delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dei principali Paesi europei. Nonostante gli avvertimenti vari, da Macron a Erdogan, Trump, lontano da ogni consenso, ha dimostrato ancora una volta che è fedele  ai suoi interessi.

Gerusalemme è una ferita aperta. Un labirinto dal quale nessuno è riuscito a trovare un’uscita. 70 anni fa, l’accordo di spartizione della Palestina aveva collocato temporaneamente la città sotto l’amministrazione internazionale. Ma presto la parte occidentale era stata occupata da Israele e dopo la guerra dei sei giorni, nel giungo del 1967, anche quella orientale (la parte che i palestinesi considerano loro capitale). In questo nido, Trump ha giocato con il fuoco. Sapendo che tutte le ambasciate  hanno sede a Tel Aviv, ha permesso che la sua intenzione di trasferire l’ambasciata trapelasse e ha persino allertato le delegazioni USA sulle possibilità di proteste. Con il suo silenzio, come quando ha ritirato il suo paese dagli Accordi sul clima di Parigi, ha fatto sì che la tensione raggiungesse il culmine. Il risultato è stato che in tutto il Medio Oriente e in Europa le pressioni si sono moltiplicate per costringerlo ad un cambiamento di rotta, mentre lui con tutte le luci puntate addosso, si accomodava sul barile di polvere da sparo per meditare. È il suo modo di fare politica. 

La decisione è stata già comunicata  al leader palestinese, Mahmud Abbas, e al re giordano Abdullah II con un giro di telefonate. La sua intenzione è quella di riconoscere la “realtà storica” di Gerusalemme e spostare l’ambasciata il prima possibile. Il cambiamento di sede era già stato deciso dal Congresso nel 1995, ma per motivi di sicurezza nazionale era stato sospeso da tutti i presidenti precedenti a Trump. La Casa Bianca sostiene comunque che il trasferimento per quanto desiderato richiederà anni, a causa dei permessi e per questioni di sicurezza. In ogni caso, il riconoscimento di Gerusalemme, con il suo enorme onere simbolico, significa gettare benzina sul fuoco. Non solo Trump pone fine a quella tregua internazionale ormai decennale, ma riafferma la sua fede filo-israeliana, che tanti voti gli ha portato durante la campagna elettorale, e avverte i palestinesi che il suo obiettivo è quello di aprire  un nuovo ciclo in cui la soluzione a due stati non è necessaria.

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha qualificato come atto storico la decisione di Trump e ha invitato gli altri paesi a fare la stessa cosa, affermando di essere profondamente grato al presidente americano per la scelta fatta e che qualsiasi accordo di pace nella zona deve tenere conto di Gerusalemme come capitale di Israele. L’indignazione cresce nella zona interessata e in Europa. Una nuova tempesta  che è stata accolta  con costernazione in un’area devastata da decenni si sangue e fuoco. Il leader palestinese, Mahmud Abbas, ha dichiarato in un intervento televisivo che Gerusalemme è la capitale storica  dello Stato Palestinese, puntando il dito contro la decisione americana e rifiutando qualsiasi mediazione nelle negoziazioni con Israele.   Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha già minacciato una nuova intifada, secondo cui la decisione di Trump “apre le porte all’inferno”, etichettandola come un’aggressione contro il popolo palestinese. L’OLP (l’Organizzazione Palestinese di Liberazione) ha definito la misura come “il bacio della morte” per la pace. In Turchia, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha manifestato la sua contrarietà, minacciando la chiusura di rapporti diplomatici con Israele, definendo la questione come una linea rossa per il mondo musulmano. In modo meno bellicoso, ma sempre indignata è stata la reazione dell’Organizzazione  della Cooperazione Islamica, che riunisce i paesi musulmani, dichiarando che il trasferimento significherebbe ignorare l’occupazione di Gerusalemme Est come territorio palestinese. Dall’Europa sono arrivati dichiarazioni da Macron, secondo cui la scelta di Trump va contro le risoluzioni dell’ONU, e dall’Alto Rappresentante UE Mogherini che ha espresso preoccupazione  per le conseguenze della mossa del presidente statunitense.

Tuttavia, secondo alcuni analisti, la mossa di Trump, per quanto spregiudicata, è meditata. I paesi arabi protesteranno formalmente, ma esistono interessi più grandi che non possono essere compromessi. Soprattutto sul fronte di Riyad, il legame tra USA e Arabia Saudita è indirizzato nell’opposizione all’ascesa dell’Iran, una battaglia condivisa con lo stesso Israele, e per essere forti su questa lotta al potere degli ayatollah, i sauditi hanno bisogno del supporto statunitense. Naturalmente fra i motivi di questa decisione bisogna citare la chiara strategia di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica verso la politica internazionale, cercando di distoglierla dallo scandalo del Russiagate con le sue ultime novità (possibile coinvolgimento del consigliere capo e genero di Trump, Jared Kushner). Non da ultimo il chiaro furore ideologico, ereditato anche da presidenze passate, secondo cui Israele è il bene assoluto.

Di Mario Savina

Bookreporter Settembre

Mario Savina, analista geopolitico, si occupa di Nord Africa e Medio Oriente. Ha conseguito la laurea in Lingue e letterature straniere all’Università di Bologna, la laurea magistrale in Sviluppo e Cooperazione internazionale a La Sapienza, dove ha ottenuto anche un Master II in Geopolitica e Sicurezza globale. Su European Affairs scrive nella sezione Medio Oriente.

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