Isolamento Qatar provocherà gravi ripercussioni

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La decisione senza precedenti del blocco di Paesi del Golfo (più le Maldive) di rompere le relazioni diplomatiche e commerciali con il Qatar è forse il primo atto di un processo che produrrà effetti a catena nei prossimi mesi. Un processo che era semplicemente tenuto in silenzio dall’attesa per le prime mosse della nuova Amministrazione americana. Non è dunque un caso che la decisione saudita, ma anche di Yemen, Bahrain, Egitto, arrivi a breve distanza dalla visita di Donald Trump a Ryadh. Una visita che ha smontato il primo pezzo della strategia USA impostata da Obama nell’ultimo decennio. Il riconoscimento dell’Iran come pivot geopolitico regionale, attraverso la legittimazione del suo programma nucleare, ha cambiato per un certo periodo il paradigma di potenza nella regione. Il Qatar ha trovato utile la mossa opportunistica di dialogare con Teheran in funzione anti-saudita, continuando peraltro a sostenere i gruppi di opposizione interna ai regimi di Arabia saudita e Egitto, in particolare la Fratellanza musulmana.

Una decisione che è opportunistica nelle modalità ma strutturale nelle motivazioni. Il golpe interno al piccolo stato del Golfo, atto fondativo della fase contemporanea della monarchia, è stato forse il momento di rottura più drammatico della vita interna al Qatar. I sauditi hanno considerato sempre il vicino come un protettorato. Fino a quando Doha non si è smarcata a suon di dollari del gas, di una attiva diplomazia economica e culturale e dello shopping finanziario e bancario in giro per il pianeta. La geometria delle alleanza, a partire da quel momento, è diventata variabile. Qatarini ed emiratini si sono trovati su fronti contrapposti in Libia – non è un caso che alla rottura delle relazioni diplomatiche si sia associato anche il Governo non riconosciuto di Tobruk -; sauditi ed emiratini hanno sponsorizzato gruppi diversi di copmbattenti in Siria; Qatar e Arabia Saudita si sono contrapposte in Egitto, con Doha che ha supportato ampiamente i Fratelli Musulmani di Morsi mentre Ryadh considera il Generale Al-Sisi un presidio di stabilità. Tutte queste contraddizioni hanno però trovato un punto di sintesi nella contrapposizione del mondo sunnita, guidato dalla dinastia degli al-Saud, all’Iran sciita. Ed è su questo punto che si è consumata la frattura delle scorse ore. L’Iran combatte una guerra per procura in Yemen, contro i gruppi vicini ai sauditi, in Siria – dove peraltro è l’unico Paese con “scarponi sul terreno” contro lo Stato Islamico -, in Bahrein, dove senz’altro alimenta le proteste di piazza contro il regno della minoranza sunnita. Ma la risposta dei sauditi al tentativo egemonico di Teheran non è meno spregiudicato: in Siria come in Iraq, i gruppi che si mescolano allo Stato islamico sono finanziati da Ryadh, come sostengono i rapporti dell’intelligence americana e dei principali think tanks internazionali.

In Medio Oriente si combatte una gigantesca guerra per procura per il predominio geopolitico e identitario nella regione. L’America di Obama aveva fatto una scelta strategica precisa, puntando sull’Iran come elemento di futura stabilizzazione. Era da immaginare che questa scelta avrebbe scontentato i sauditi e i suoi alleati nel Golfo. Non era immaginabile però che il nuovo Presidente americano avrebbe agito così rapidamente e contribuito a smontare con una sola visita un paziente lavoro di cucitura diplomatica durato anni. L’Iran rischia dunque un nuovo isolamento e il Qatar, che non ha mai rotto il filo del dialogo con gli iraniani, è il primo a farne le spese.
Si è riaperto un grande gioco in quell’area del mondo – c’è da attendersi che Russia e Cina non staranno a guardare. Le cui conseguenze sono imprevedibili. C’è però da giurare che, rientrato alla Casa Bianca dopo il suo primo lungo tour internazionale, Trump abbia capito finalmente quanto sia complicato il mondo e quanto sia difficile provare a governarlo.

di Gianluca Ansalone

Bookreporter Settembre

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