Mar Cinese Meridionale: quali scenari dopo la sentenza dell’Aja

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Le previsioni sono state rispettate: La Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja, interpellata dalle Filippine in difesa delle proprie aree di pesca, si è espressa ieri con una sentenza che soddisfa Manila e disconosce le rivendicazioni di Pechino sulle isole del Mar Cinese Meridionale. La Corte ha stabilito che l’espansionismo cinese viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), un accordo internazionale che regola il diritto degli stati sugli oceani, sottoscritto da 166 nazioni, Cina compresa.

Come era altrettanto prevedibile, considerate le dichiarazioni dei leader cinesi prima del verdetto, il gigante asiatico non intende rispettare la sentenza della Corte, alla quale non ha mai voluto riconoscere alcuna giurisdizione sulla disputa marittima che coinvolge i principali paesi del sud-est asiatico, oltre a Giappone, USA e, più marginalmente, Australia.

La cosiddetta “linea a nove tratti” rivendicata da Pechino copre il 90% del Mar Cinese Meridionale e trova la sua traballante giustificazione storica nel controllo dell’arcipelago delle Isole Paracelso, sottratto militarmente al Vietnam nel 1974. Negli ultimi tre anni la Cina ha rafforzato unilateralmente la sua posizione costruendo atolli artificiali lungo le barriere coralline, su cui ha poi installato avamposti civili e militari e lingue di asfalto a pelo d’acqua per l’atterraggio dei propri apparecchi.

Di fatto, la sentenza agita ulteriormente le acque in un teatro geopolitico già soggetto a tempeste frequenti. La Cina è convinta che nessun atto di tribunale potrà mai mettere in discussione i suoi interessi nazionali nell’area. Del resto, la Corte internazionale dell’Aja non dispone di alcun strumento vincolante per obbligare Pechino a rispettare la sua sentenza. Il governo cinese però teme che il giudizio favorevole alle Filippine possa innescare un domino di ricorsi da parte degli altri paesi le cui coste si affacciano sul tratto di mare conteso, tra i più importanti al mondo dal punto di vista ittico e commerciale. Gli USA, dal canto loro, potrebbero usare la sentenza per tornare all’attacco sul fronte della libertà di navigazione, il vessillo che Washington porta avanti per salvaguardare i propri interessi economici e militari nell’area.

La risposta di Pechino sarà probabilmente più importante della sentenza stessa e potrebbe indicare la strada dei rapporti futuri tra la potenza egemone dell’area e il blocco di nazioni che tenta di contenerne l’espansione. La domanda è: cosa farà la Cina? Cercherà di indirizzare lo sviluppo degli eventi a suo favore o tenterà altre azioni unilaterali, anche a costo di esacerbare le tensioni?

Pechino potrebbe decidere di essere accomodante e, pur senza accettare pubblicamente i principi della sentenza, potrebbe mitigare le proprie posizioni, fermando la costruzione delle isole artificiali e riconoscendo il diritto di pesca dei paesi circostanti nelle acque contese. Sul lungo periodo un atteggiamento conciliante potrebbe giovare alla crescita del paese, garantendo la pace e favorendo la nascita di un sistema legale internazionale sensibile ai suoi interessi.

Gli eventi potrebbero però prendere la direzione opposta. La Cina potrebbe rifiutare la sentenza e con essa rigettare i principi dell’UNCLOS, accelerare la costruzione delle isole artificiali e rafforzare gli avamposti militari, mostrando i muscoli alle Filippine e agli altri paesi dell’area ASEAN.

Pechino potrebbe anche optare per una terza via: far finta di nulla e ignorare la sentenza. Ma per cementare la sua leadership la Cina ha bisogno di produrre regole, non di ignorarle, offrendo un’immagine di affidabilità sul piano del diritto internazionale. Un atteggiamento propositivo è l’unico che le permetterebbe di convincere gli altri paesi asiatici a riconoscerle un ruolo di guida nel medio e lungo termine.

Tutti gli attori coinvolti dovrebbero dunque accettare apertamente o tacitamente i principi soggiacenti la sentenza senza che nessuno ne demandi l’immediata attuazione. La Cina così avrebbe tempo di adattare gradualmente le sue iniziative ai nuovi principi, in nome della stabilità politica e dell’affermazione di un diritto internazionale all’interno del quale costruire la propria supremazia.

Al momento però non è facile immaginare tanta ragionevolezza, perché il gigante asiatico si nutre anche di nazionalismo e revanscismo nei confronti delle potenze occidentali e filo-occidentali, che nel passato hanno utilizzato il guanto di ferro per imporre i propri interessi alla Cina. Le dichiarazioni ufficiali pronunciate poco prima del verdetto per bocca del Ministro della Difesa non sono sembrate concilianti. Le forze armate si impegnano infatti a “salvaguardare fermamente la sovranità nazionale, la sicurezza, i diritti e gli interessi marittimi, a sostenere la pace e la stabilità, e ad affrontare ogni tipo di sfida e minaccia”.

Oggi Pechino si sente forte come non mai e potrebbe decidere di sfidare le regole comuni per  costringere gli avversari ad accettare le sue. In questo caso anche la pace stessa sarebbe a rischio, perché un incremento delle costruzioni di infrastrutture civili e militari nel Mar Cinese Meridionale rafforzerebbe la deterrenza ma moltiplicherebbe le occasioni di incidenti con gli USA e i suoi alleati. L’escalation, a quel punto, potrebbe rivelarsi rapida e incontrollabile.

Bookreporter Settembre

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