GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Aprile 2016 - page 2

Iran: nessuna negoziazione sulla difesa

Difesa/Medio oriente – Africa di

Chiunque pensasse che l’Iran, dopo la firma dell’accordo sul nucleare e il ritiro di alcune sanzioni internazionali, si sarebbe trasformato in un docile alleato pronto a sottostare ai desideri delle potenze occidentali, probabilmente ha fatto male i suoi conti. Ciò che stiamo vedendo nelle ultime settimane, invece, è una nazione decisa e resoluta, votata a riprendersi la scena internazionale e a perseguire i propri interessi, no matter what!

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Riflettori puntati sulla Repubblica Islamica in particolare per quanto riguarda i recenti test di missili balistici, che hanno destato nuovamente timori e preoccupazioni tra i paesi occidentali e le monarchie del Golfo. Il mese scorso, infatti, durante un’esercitazione militare –nome in codice Eqtedar-e-Velayet-, il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) ha testato due missili balistici modello Qadr, il Qadr-H e il Qadr-F. Entrambi i missili sono stati lanciati dai massicci montuosi situati nella regione settentrionale dell’Iran, le East Alborz Mountains, colpendo obiettivi collocati lungo le coste sudorientali del paese. Secondo i report, i missili avrebbero una gittata rispettivamente di 1.700 e 2.000 km.

Non si è fatta attendere la reazione internazionale, ancora una volta profondamente divisa. Da un lato la condanna di Stati Uniti e Europa, che hanno visto i test come una violazione della risoluzione ONU 2231; dall’altro la Russia, che, invece, sostiene come le esercitazioni condotte non violino in alcun modo i dettami del documento. È fallito, infatti, il tentativo delle potenze occidentali di sollevare, proprio in sede ONU, azioni contro l’Iran. Sembra, inoltre, che Washington stessa abbia fatto marcia indietro sulle prime dichiarazioni circa i test, confermando che questi non rappresentino nei fatti alcuna infrazione alla risoluzione.

Stando al testo di quest’ultima, infatti, “Iran is called upon not to undertake any activity related to ballistic missiles designated to be capable of delivering nuclear weapons, including launches using such ballistic missile technology…”. Il problema nasce qualora tali tecnologie –come Israele sostiene- siano potenzialmente in grado di trasportare testate nucleari. Tuttavia, le dichiarazioni rilasciate dal Ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif ribadiscono come il paese non sia attualmente dotato di missili in grado di trasportare tali testate.

Diversi sono gli esponenti iraniani che si sono espressi  sull’argomento. Il Segretario dell’Expediency Council (EC) Mohsen Rezaei ha ribadito che il programma missilistico iraniano è esclusivamente a scopo deterrente e rientra a pieno titolo nel diritto all’autodifesa del paese in caso di attacco armato. Secondo il Segretario è facilmente comprensibile come il disarmo non sia una via percorribile per l’Iran: qualora si abbandonasse l’investimento nella difesa, infatti, il paese diventerebbe facilmente attaccabile e sono numerosi i nemici che ne potrebbero approfittare.

Più rigida la posizione del generale Amir Ali Hajizadeh, comandante delle forze aeree delle IRGC. La Repubblica Islamica continuerà a potenziare le sue capacità difensive e missilistiche, che servono a garantire la sicurezza del paese e a dissuadere i nemici dall’attaccare l’Iran. Sono proprio questi nemici ad aver cercato di minare il sistema di difesa iraniano per più di 30 anni e le stesse sanzioni approvate dagli USA all’indomani dei test ne sono una costante conferma. Le capacità missilistiche sono una questione di sicurezza nazionale e l’Iran mette in chiaro come non vi sia spazio per negoziazione o compromesso. “Nessuna persona saggia negozierebbe sulla sicurezza del proprio paese” ha affermato il Vice Ministro degli Esteri per gli Affari Legali ed Internazionali Abbas Araqchi.

È chiaro che simili dichiarazioni possano destare particolari timori specialmente tra paesi come Israele e le monarchie del Golfo. Il primo, infatti, è nel mirino di Teheran sin dai tempi dell’Ayatollah Khomeini e la stessa retorica dell’annientamento del paese ebraico viene spesso riproposta. I paesi del Golfo non vedono di buon occhio la crescita (economica e militare) di un paese che non solo mira all’egemonia della regione, ma supporta ed alimenta diversi gruppi fondamentalisti, fattori destabilizzanti della sicurezza regionale. Tensioni e attriti sono altamente probabili nei prossimi mesi: resta, infatti, da vedere come i vari stati arabi risponderanno ad un Iran poco incline alla cooperazione e propenso a raggiungere i propri obiettivi nazionali, le ripercussioni che ciò può avere nelle relazioni tra i vari attori ed il ruolo che potenze come Stati Uniti o Russia possono giocare nel favorire o ostacolare questi rapporti.

 

Paola Fratantoni

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The Panama Papers: i potenti del mondo alla sbarra

ECONOMIA di

“Non è stata una bella settimana!” . Con queste parole il Premier Britannico David Cameron si è presentato agli elettori commentando la vicenda che lo ha visto protagonista nell’ambito dell’inchiesta Panama Papers.

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Cameron sostiene di non aver mai evaso il fisco inglese ed è addirittura arrivato a rendere pubblica, per la prima volta nella storia di Downing Street, la propria posizione finanziaria fin dal suo primo anno di premierato, il 2010.

Nell’imbarazzato tentativo di ricostruirsi credibilità presso un elettorato a cui ha chiesto per anni austerità e rinunce e che è meno avvezzato di altri a perdonare le debolezze dei propri leader, il Premier si è giustificato sostenendo che le quote di società off-shore di cui sarebbe titolare deriverebbero esclusivamente dal lascito ereditario del padre, Ian Cameron, finanziere di spicco della City per decenni.

Decisamente più amara la sorte del Premier dell’Islanda,  Iolander Sigmundur, che, di fronte ai concittadini che ancora faticano a riprendersi dalla grande crisi del 2008, è stato costretto a dimettersi per aver fatto operazioni off-shore per mettere al sicuro i propri risparmi.

Coinvolto anche Vladimir Putin: anche se il suo nome non è uscito direttamente, sono molto gli indizi che lo associano a numerose società panamensi. Il Cremlino ha reagito alla notizia gridando al complotto americano e censurando i media.

Niente al confronto del Great Chinese Firewall, il sistema che impedisce ai cittadini della Repubblica Popolare di navigare su Internet alla ricerca di fonti di informazione libere circa il coinvolgimento del Gotha del Partito Comunista: fra i tanti nomi spicca quello di un nipote di Mao, con buona pace di generazioni di rivoluzionari.

Senza contare i leader dei paesi arabi, o Victor Poroshenko dell’Ucraina, o le stelle dello sport, con icone quali Jarno Trulli o Lionel Messi, bandiera della nazionale Argentina di calcio e del Barcellona.

In Italia fino ad oggi sono usciti i nomi eccellenti di Luca Cordero di Montezemolo (che smentisce), lo stilista Valentino, Barbara D’Urso e Carlo Verdone (!). Ben più serio il coinvolgimento di numerosi istituto bancari.

TAX HAVENS

“The Panama Papers” è il nome ufficiale di un’inchiesta condotta dall’International Consortium of Investigative Journalism (ICIJ), un network internazionale di testate per il giornalismo d’inchiesta.

Richiamando l’inchiesta degli anni ’70 denominata “Pentagon Papers”, un team internazionale di professionisti (il cui terminale per l’Italia è il settimanale l’Espresso) per più di un anno ha esaminato una sterminata mole di dati e verificato le informazioni che ne venivano fuori, fino ad arrivare alle pubblicazioni di questi giorni.

L’inchiesta ha preso il via grazie ad un whisteblower che circa un anno e mezzo fa ha sottratto 2,8 terabyte di dati dall’archivio dello studio legale panamense Mossack Fonseca, specializzato nella creazione di società off-shore.

Lo studio, operante dal 1977 e mai indagato prima, ha al suo attivo la creazione di 215.000 società in 204 paesi con il coinvolgimento di più di 14000 intermediari finanziari.

L’hacker ha “passato” tutto il materiale alla testata tedesca Suddeutsche Zeitung che, vista la mole di lavoro, ha coinvolto l’ICIJ.

Il risultato è uno dei più grandi scoop della storia del giornalismo, diramato in diretta streaming mondiale da centinaia di testate diverse e destinato a tenere banco per i prossimi mesi, con conseguenze che si protrarranno forse per anni.

WHERE ARE THE AMERICANS?

Mentre il fragore suscitato dalle rivelazioni non accenna a diminuire, alcuni si sono posti la domanda, considerato il relativamente basso numero di americani coinvolti. Tanto più strano se si pensa agli strettissimi rapporti vigenti fra Washington e il Paese dello Stretto.

Ci si sarebbe aspettato una maggiore presenza di personaggi legati al big business a stelle e strisce, invece no, solo nomi di seconda e terza fila. E’ quanto ha cercato di appurare anche la testata Politico, influente magazine web. Fra le ragioni che giustificherebbero la vicenda ci sarebbero la diffidenza degli americani verso Panama a favore di altri paradisi fiscali, la relativa facilità con cui aggirare il sistema impositivo all’interno degli stessi Stati Uniti, il virtuosismo yankee che determina una percentuale di evasione totale limitata, circa il 4%.

L’inchiesta è appena iniziata e nuove rivelazioni si susseguono giornalmente, pertanto è ancora presto per capire se c’è qualcuno che si sta avvantaggiando dagli scossoni geopolitici che ne seguiranno.

Leonardo Pizzuti

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LA MEZZALUNA DEL FONDAMENTALISMO ISLAMICO DAL CAUCASO ALLA LIBIA

Video di

DIRETTA STREAMING DEL CONVEGNO

LA MEZZALUNA DEL FONDAMENTALISMO ISLAMICO DAL CAUCASO ALLA LIBIA
L’OFFENSIVA DEL DAESH AI CONFINI D’EUROPA –ROMA 14 APRILE 2016 – 0RE 17.30

Il convegno si propone un’analisi del fenomeno dell’Isis, inteso come offensiva militare e terroristica, con la prospettiva della ricostituzione del Califfato in un’area del mondo che potrebbe coincidere con quella in cui si registrano presenze islamiche, o con quella che è stata oggetto delle conquiste arabe e poi turche nel Medio Evo.

Quindi si tenterà un approfondimento delle radici del fenomeno Isis, delle condizioni che ne hanno favorito la formazione e delle motivazioni dei suoi promotori e militanti.   Si cercherà di cogliere, inoltre, il potenziale di destabilizzazione politica della sua azione militare e propagandistica e gli effetti già raggiunti in Siria, Iraq e Libia, sul punto di essere ridotti al rango dei cosiddetti “stati falliti”.

L’intento dell’incontro-dibattito sarà soprattutto  quello di individuare le possibili soluzioni al conflitto siriano, che, oltre a provocare innumerevoli vittime, sta espellendo porzioni sempre più ampie della sua  popolazione fuori dai territori del Paese, costringendoli a migrazioni di massa in condizioni disumane.

 

[youtube]https://youtu.be/Y_EPwyqK-Fs[/youtube]

 

Libia: in attesa di un piano di ricostruzione

Medio oriente – Africa di

Il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni ha incontrato il premier Fayez Serraj a Tripoli nell giornata di martedì 12 aprile (è la prima carica istituzionale a recarsi in Libia dal 2014 ad oggi). Un incontro a sorpresa, in cui il titolare della Farnesina ha portato sostegno “politico, umanitario ed economico”. Sempre il 12 aprile, a Tunisi, si è tenuta una conferenza organizzata dall’UNSMIL, con lo scopo di reperire fondi internazionali a favore del nuovo governo libico. Insomma, dopo l’arrivo e l’insediamento di due settimane fa, l’appoggio di alcune municipalità e fazioni, il governo ONU ha bisogno di un supporto internazionale sia politico sia economico che gli permetta di combattere lo Stato Islamico.

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Ma dopo la partenza in quinta, dopo avere scacciato l’ex premier Ghwell, per Serraj è arrivato il momento di fare i conti con una strategia di medio-lungo periodo, che non pensi solo alla battaglia contro Daesh ma alla ricostruzione nei prossimi anni.

Un piano, quello postbellico, mancato proprio a seguito dell’intervento militare internazionale del 2011, come ricordato dal presidente USA Barack Obama in un’intervista a Fox News: “L’intervento internazionale in Libia nel 2011 fu giusto. Ma l’errore, il più grave nel corso della mia presidenza, è non avere pensato ad un piano di ricostruzione per il dopo Gheddafi”. Parole che indicano dunque prudenza. Quella stessa prudenza rilanciata dal delegato ONU per la Libia Martin Kobler: “Dovranno essere i libici a battere lo Stato Islamico, meglio evitare forzature dall’esterno”.

Nel corso di questa settimana, oltre alla questione ISIS, è stata rilanciato anche il tema dei migranti. Dopo la denuncia della scorsa settimana da parte dell’UNSMIL di torture e condizioni disumane in cui vivono i profughi in Libia, è il generale Paolo Serra, consigliere militare ONU di Martin Kobler, a rilanciare, il 13 aprile, l’allarme su un possibile esodo verso le coste italiane: “Se non ci sarà un’attività di sostegno ai controlli e all’economia il flusso migratorio aumenterà. Prima questi flussi provenienti da altri Paesi africani si fermavano in Libia, dove trovavano lavoro come manodopera, visto che la maggioranza dei libici erano impiegati statali e vivevano dei proventi del petrolio. Ora c’è una crisi umanitaria enorme ed è difficile controllare i movimenti dall’Africa subsahariana”.

Il generale parla addirittura di un milione di possibili nuovi arrivi o comunque di un aumento cospicuo nelle prossime settimane, prima che il governo Serraj prenda il controllo delle frontiere e il flusso migratorio verso l’Europa possa diminuire.

Mentre sul raddoppio dei miliziani ISIS in Libia, ha affermato che: “Fonti americane parlano di 5-6mila militanti. Noi non abbiamo riscontri, ma sicuramente sono intorno a 3mila e si sono inseriti nella zona di Sirte, occupando villaggi o mettendoli sotto pressione con attentati. Sirte è ormai una città perduta, dove ci sono esecuzioni in piazza tutti i giorni con gente che guarda e applaude, mentre a Derna i vecchi della città hanno trovato la forza di combattere i miliziani”, ha concluso Serra.
Giacomo Pratali

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Iran: no negotiation over defence

Defence di

Whoever thought that, after the signature of the nuclear deal and the lifting of the international sanctions, Iran would have become a docile and friendly country, well, probably made a wrong calculation. Indeed, in the last weeks, we’ve seen a strong and resolute nation, aimed to restore its position in the international area and to pursue its national interests, no matter what.

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The spotlight is on the Islamic Republic in particular due to its recent ballistic missile tests, which have raised new fear and concern among Western countries and the Gulf monarchies. Last month, indeed, during a military large-scale drill –codenamed Eqtedar-e-Velayet-, the Islamic Revolutin Guards Corps (IRGC) tested two ballistic missiles class Qadr, the Qadr-H and the Qadr-F. Both the missiles were launched from the heights of East Alborz Mountains, northern Iran, hitting targets on the southeast coasts of the country. According to reports, missiles have a range of 1,700 km and 2,000 km respectively.

The international reaction wasn’t long in coming. On the one hand, the condemnation of the United States and Europe, which saw tests as a breach of UNSC resolution 2231; on the other, Russia stated that these tests do not violate the mandate of the document. Even Western powers failed to raise actions against Iran at the UN. It seems that Washington later withdrew its accusation, confirming that the tests do not represent a breach of the resolution.

According to the latter, indeed, “Iran is called upon not to undertake any activity related to ballistic missiles designated to be capable of delivering nuclear weapons, including launches using such ballistic missile technology…”. Questions arise whether these technologies could be able -as Israel affirms- to  carry nuclear warheads. However, recent declarations from the Iranian Foreign Minister Javad Zarif state that the country does not have any missile capable of carrying this kind of warheads.

Several Iranian personalities have spoken about this topic. The Expediency Council (EC) Secretary Mohsen Rezaei stressed that the Iranian missile programme only has deterrent purposes and is aimed to exercise the country’s right to self-defence in case of an armed attack. According to the Secretary, it is easily understandable that disarm could not be an option for Iran: indeed, if the country gives up investments in defence, it would be subjected to attack and there are several enemies that could take advantage from this situation.

General Amir Ali Hajizadeh, commander of the air forces of the IRGC, has even a stricter position. The Islamic Republic will continue to strengthen defensive and missile capabilities, which ensure Iran’s security and deter enemies from attacking the country. These enemies are also the ones, which have boosted the country’s defence power for more than 30 years; and US new sanctions just confirm this idea. Missile capabilities are a matter of national security and Iran clearly states that there is no room for negotiation or compromise over it. “No wise individual will negotiate over his country’s security” said the Deputy Foreign Minister for Legal and International Affairs Abbas Araqchi.

It is clear that similar statements can raise concerns, especially among countries such as Israel and the Gulf monarchies. The first has been a target of Iran since Ayatollah Khomeini and the rhetoric of “wiping out” the Jewish country has recently come out several times.  The Gulf countries do not support the economic and military growth of a country that not only aims to achieve regional hegemony but also backs and fosters several fundamentalist groups, drivers of instability in the region. Tensions are likely to arise in the coming months: it is to be seen how Arabic countries will react to an Iran not so prone to cooperation and aimed to achieve its national goals, the consequences on the relationship among these actors and the role that powers such as US and Russia could play in fostering or hampering these relations.

 

Paola Fratantoni

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Aung San Suu Kyi vuole liberare i prigionieri politici

Asia di

Dopo il giuramento di Htin Kyaw, il primo presidente democraticamente eletto del Myanmar dopo 56 anni di dittatura militare, continua il percorso di cambiamento del paese del sud-est asiatico.

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Aung San Suu Kyi, Nobel per la Pace e leader della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), di cui il governo è diretta espressione, non ha potuto assumere il ruolo di Primo Ministro a causa di una norma costituzionale che era stata introdotta dalla giunta militare per scongiurare il rischio di una sua salita al potere. L’”Orchidea di acciaio” però, fin dalla campagna elettorale conclusasi con le elezioni dello scorso novembre, aveva promesso ai cittadini del Myanmar che, in caso di vittoria, avrebbe governato il paese anche senza essere premier.

Per permetterle di rispettare l’impegno, il nuovo Parlamento ha creato una posizione ad hoc per San Suu Kyi, assegnandole il ruolo di Consulente di Stato. In tale veste ufficiale, la leader del partito può direttamente contattare e convocare ministri, dipartimenti, organizzazioni, associazioni e singoli individui per discutere delle questioni al centro dell’agenda di governo. Una posizione che, di fatto, permette a Suu Kyi di governare indirettamente, attraverso il Presidente “delegato” Htin Kyaw.

Una delle prime questioni su cui Aung San Suu Kyi intende far valere il suo peso è quella dei prigionieri politici. Giovedì scorso il premio nobel, con un post su Facebook, ha affermato la sua intenzione di impegnarsi per un’amnistia di massa che permetta la liberazione dei prigionieri politici, degli attivisti  e degli studenti incarcerati dalla giunta militare nel corso degli ultimi anni.

L’incarcerazione arbitraria di migliaia di attivisti per la democrazia è stata una drammatica costante durante i decenni della dittatura, e la stessa Suu Kyi ha vissuto per 15 anni agli arresti domiciliari. Anche molti dei parlamentari recentemente eletti hanno provato sulla propria pelle la repressione del regime e le privazioni  della vita del carcere.

Il governo di transizione semi-civile, che è stato al potere dal 2011 al 2015, aveva già concesso la libertà a centinaia di detenuti politici, ma secondo le stime ci sono ancora 90 attivisti imprigionati e altri 400 in attesa di giudizio. Circa 70 di questi sono studenti arrestati prima delle elezioni dello scorso novembre con l’accusa di aver partecipato ad assemblee illegali o di aver preso parte, nel marzo 2015, alle proteste di piazza contro la riforma scolastica, duramente represse dalla polizia. Dopo più di un anno, i processi in molti casi devono ancora giungere a sentenza.

La decisa iniziativa di Suu Kyi, che fa presagire un intervento diretto, a breve, da parte del premier Kyaw, potrebbe spingere il pubblico ministero a far cadere le accuse contro gli studenti. Le difficoltà però sono ancora molte, considerando anche le profonde inefficienze del sistema giudiziario del Myanmar.

Il primo dei problemi, ancora una volta, è rappresentato dall’esercito, a cui l’attuale costituzione garantisce un quarto dei seggi parlamentari e la  guida di alcuni tra i ministeri più importanti. Il potere dei militari, in Myanmar, è stato mutilato ma è ancora forte e diffuso. Ogni riforma democratica dovrà inevitabilmente fare i conti con le loro resistenze.

 

Luca Marchesini

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Aung San Suu Kyi wants to release political prisoners

Asia @en di

After the oath of Htin Kyaw, the first democratically elected president of Myanmar after 56 years of military dictatorship, continues the path of change in the country of Southeast Asia.

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Aung San Suu Kyi, Nobel Peace Prize winner and leader of the National League for Democracy (NLD), of which the new government is a direct expression, could not assume the role of prime minister because of a constitutional provision which was introduced by the junta military to avoid the risk of her coming to power. The “Steel Orchid”, however, since the election campaign ended with the last November elections, had promised the citizens of Myanmar that, if victorious, she would have ruled the country “above” the President.

To enable her to fulfill this commitment, the new Parliament has created an ad hoc position for San Suu Kyi, assigning her the role of the State Consultant. In this official position, the party leader can directly contact and summon ministers, departments, organizations, associations and individuals to discuss the main of government agenda. A role that, in fact, allows Suu Kyi to rule indirectly, through the “delegate” President Htin Kyaw.

One of the first issues on which Aung San Suu Kyi intends to assert its weight is that of political prisoners. Last Thursday the Nobel prize, with a post on Facebook, has stated his intention to push for a mass amnesty that allows the release of political prisoners, activists and students imprisoned by the military junta in recent years.

The arbitrary imprisonment of thousands of activists for democracy has been a dramatic constant during the decades of dictatorship, and the same Suu Kyi had been living for 15 years under house arrest. Many of the recently elected MPs, as well, have tried the hard repression of the regime and the hardships of prison life.

The semi-civilian transition government, which was in power from 2011 to 2015, had already granted the freedom to hundreds of political prisoners, but it is estimated that there are still 90 imprisoned activists and another 400 awaiting trial. About 70 of these are students arrested before last November’s elections, charged of having participated in illegal meetings or taking part, in March 2015, in the street protests against the educational reform, harshly repressed by the police. After more than a year, the trials in many cases have yet to come to sentence.

The decisive initiative of Suu Kyi, which portends a direct intervention, in short, by the prime minister Kyaw, could push the prosecutor to drop the charges against the students. But the difficulties are still many, considering the deep inefficiency of the judicial system in Myanmar.

The first problem, again, is represented by the army, to which the current constitution guarantees a quarter of parliamentary seats and the control of some of the most important ministries. The power of the military, in Myanmar, has been mutilated but is still strong and widespread. Every democratic reform will inevitably have to deal with its opposition.

 

Luca Marchesini

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Libya: Daesh and Haftar, the two real issues

BreakingNews @en di

After a week, GNC voted its dissolution. So, former prime minister Ghwell left its office. Premier Serraj stregthened its position also because of support of Tripoli and Southern municipalities as well as Central Bank of Libya, Libyan Investment Authority and National Oil Corporation. But two issues remain. Tobruk has not already ratified GNA and Haftar, supported by Egypt, who has a greated influence over Libyan National Army. And Daesh, which doubled its militants to 6,000 fighters.

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UN government reached its first target. After sanctions against Ghwell, who escaped to Misurata one week ago, yesterday GNC announced its dissolution thanks to 70 representetives (it will be the new State Council). Kobler arrival on Thursday got things moving again: “The HoR remains the legitimate body to endorse the GNA. I urge the HoR to hold a comprehensive session to vote on GNA in free will,”

UN support, with US, UK, Italy and France in the background, are convincing several institution and people to support GNA. From Misrata militias one week ago, to Central Bank, LIA, NOC and several municipalities in Tripoli and southwards now. Even former premier Ghwell could be persuaded that him and its business will not touch.

“We have been working with Prime Minister Sarraj and the Presidency Council to put this period of divisions and rivalry behind us,” NOC chairman Mustafa Sanalla, who predicted that exported barel production per day could return to 800 (now is 200).

From security viewpoint, situation is not difficult like one week ago. Tripoli is trying to return the capital of entire Libya, where GNA will have its stronghold. But Serraj has two missions.

The first one is to convince HoR to ratify UN government and Cyrenaica to support it. A UN military operation, with Italy as leader of international coalition (as remebered by U.S. Secretary of Defense Ashton Carter on UsaToday) will be possible only if Tobruk accepts Moroccan deal. Moreover, Haftar influence over Libyan Army and Egyptian support are not helping to form the unity government. On the contrary, as reported by several international sources, former general would want to split Libya into two parts.

The second one is against Islamic State. Indeed, jihadists passed to 6,000 fightes in the last 12 to 18 months. Daesh is not only in Sirte, but also in Benghazi, Derna and Sabratha. However, local rebels are fighting ISIS: “They are contesting the growth of ISIS in several areas across Libya,” General David M. Rodriguez, head of U.S. Africa Command, said. “They don’t have the homegrown people that know as much about Libya like they did in Iraq and Syria. ”

So, this week was only the first step. Real Libyan problems has not already solved.
Giacomo Pratali

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South Sudan: UN and Amnesty reports

Report @en di

No respect for treaty of peace signed in 2015. A civil war which is continuing between Dinka and Nuer people from over 2 years. And at last the return to national capital Juba of Riek Machar. The recent news from South Sudan and the UN and Amnesty reports about crime against humanity illustrate a geopolitical disaster which is overlooked by international community.

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As reported by Ceasefire and Transitional Security Arrangements Monitoring Mechanism (CTSAMM), responsible for monitoring compliance of South Sudan, from late December to early March, the truce was definitely violated 5 time. So, a cruel context, very distant from peace agreements in Ethiopia of July 2015. Moreover, the civil war should not be included only within Greater Upper Nile.

This war has caused humanitarian effects, as resulted by UN and Amnesty International charges. Over 8,000 mine victims since 2011. The rape as soldiers salary. Children and disabled people tortured burned alive. About 1.6 million people continued to be displaced from their homes within the country, and some 600,000 sought refuge in neighbouring countries. At least 4 million people faced food shortages.

“The challenge in South Sudan is an increasing disconnect between the assurances of national and the actions of local groups,” said UN Under-Secretary-General for Humanitarian Affairs and Emergency Relief Coordination, Stephen O’Brien. “In addition to the ongoing violence, the deteriorating economic situation is further driving instability. The monthly cost of food and clean water for an average family now amounts to 10 times the salary of a teacher.

While Kate Gilmore, UN Deputy High Commissioner for Human Rights, denounced that “Since December 2013, all parties to the conflict have committed gross human rights violations and abuses, along with serious violations of international humanitarian law. These include killing civilians, widespread sexual violence against women and girls, pillaging and destruction of civilian property such as homes, humanitarian infrastructure, schools, and medical facilities, including hospitals. ”

Giacomo Pratali

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Serraj e le incognite sul futuro della Libia

Prima l’atterraggio negato. Poi l’arrivo via mare mercoledì 30 e il respingimento del governo retto da Khalifa Ghwell. Infine, la fuga di quest’ultimo a Misurata. L’entrata in vigore del governo di unità nazionale presieduto da Fayez al Serraj, dopo i tumulti delle prime ore a Tripoli e l’istituzione del quartier generale provvisorio nella base navale di Abu Sittah, getta speranze e incognite sul futuro della Libia.

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Il pressing della comunità internazionale alla fine ha portato ad un primo risultato. L’accelerazione dell’istituzione del governo di unità nazionale avvenuta mercoledì 30 marzo è un segno evidente che le Nazioni Unite, complici gli attentati di Bruxelles e l’indebolimento dello Stato Islamico in Siria a fronte di un suo rafforzamento in Libia, hanno rotto gli indugi.

Questo, nonostante due ostacoli interni. In primis, dal governo di Tobruk e dal GNC, ancora lontani dal ratificare la lista dei membri del nuovo esecutivo concordato in Marocco sotto l’ombrello dell’ONU. Dall’altra parte, i rappresentanti del governo di Tripoli, tra cui il premier Ghwell, che hanno sì partecipato alle trattative di Skhirat, ma che adesso hanno paura di vedere svanire quella posizione di potere costruita dal 2014 ad oggi.

Le dure parole di Ghwell all’arrivo del nuovo premier Serraj (“Il nuovo governo è illegale perché designato dall’ONU”), gli scontri nel centro di Tripoli che hanno portato ad un morto e la presa di controllo della emittente Al Nabaa, vicina ai Fratelli Musulmani, da parte di uomini vicini al nuovo esecutivi, completano un quadro ancora incerto.

Ma forse meno fosco del previsto. Come rivelato da Libya Herald, l’improvvisa e inaspettata fuga di venerdì di Ghwell a Misurata sarebbe il risultato della pressione proprio delle milizie di Misurata, sostenitrici di Serraj, oltre che delle sanzioni nei suoi confronti annunciate dall’Unione Europea (riguardanti anche il presidente dell’HoR Agilah Saleh e l’omologo del GNC Nouri Abusahmen).

In più, i sindaci delle 13 municipalità di Tripoli oltre ai sindaci di 10 città libiche hanno annunciato il loro sostegno al nuovo esecutivo: “La situazione del Paese è critica – ha rivelato il sindaco di Sabrata Hussein al Dawadi al Daily Mail -. Il costo della vita è molto alto e al contempo non c’è abbastanza disponibilità di denaro: questo ci porta a sostenere il nuovo governo”.

Ed è infine notizia di oggi dei colloqui in corso proprio tra Serraj e il capo della Banca Centrale libica per aumentare l’emissione di denaro.

Un po’ a sorpresa, dunque, questo governo, bollato da parte dell’opinione pubblica internazionale come paracadutato dalle Nazioni Unite, sta in parte risolvendo dentro i suoi confini i suoi problemi. Rimangono comunque i problemi legati all’ordine pubblico a Tripoli e negli altri centri del Paese di qui ai prossimi giorni e due rischi concatenati: che il nuovo esecutivo venga visto come un’indebita ingerenza dell’Occidente negli affari interni libici e che, di conseguenza, l’opera di proselitismo dello Stato Islamico abbia un’ulteriore arma propagandistica dalla sua parte.

E l’intervento militare esterno? Anche se bollato come non prioritario da Serraj (“I primi provvedimenti del mio governo potrebbero essere di natura economica”), l’arrivo sul territorio libico di un contingente ONU è ormai prossimo.

A partire dal supporto in materia di addestramento e di messa in sicurezza della capitale Tripoli, sede del governo di unità nazionale, e delle infrastrutture libiche. Come già concordato nel corso del congresso di metà marzo a Roma, l’Italia fornirà 2500 uomini, mentre il Regno Unito 1000.

Mentre l’ipotesi di un intervento militare diretto resta un punto interrogativo che divide Renzi da Obama e gli altri alleati occidentali, determinati a stroncare la radicalizzazione dello Stato Islamico in Libia.

 

Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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