GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Gennaio 2016 - page 2

La sfida di Gentiloni: Siria, pace possibile. «Oltre l'embargo con corridoi umanitari e aiuti"

EUROPA di

«La pressione va concentrata su due fronti: coinvolgere il regime nell’apertura di corridoi umanitari e, con l’avvio del negoziato, ottenere cessate il fuoco che possano attenuare la tragedia in corso». È chiaro il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni sul fatto che la guerra in Siria, l’assedio delle città, il dramma dell’embargo e della popolazione che non riceve aiuti e muore di fame, siano problemi davanti ai quali la comunità internazionale non può ruggire.

Ma l’Italia, che può fare?

In queste settimane abbiamo partecipato alle operazioni quando si sono create le condizioni per aprire corridoi umanitari. Praticamente, dall’inizio dell’anno è successo in un paio di occasioni e noi siamo stati tra i Paesi più presenti. Anche se purtroppo, va detto, negli ultimi mesi la disponibilità del regime siriano ad aprire vie d’entrata si è rivelata piuttosto limitata. A Madaya, però, si è riusciti ad arrivare anche grazie alla mediazione della Russia. Il dramma umanitario è però lì, davanti agli occhi di tutti: non solo le vittime e il dramma degli sfollati. Sei anni fa quasi 3 milioni di ragazzi andavano a scuola, oggi c’è una generazione perduta. Quindi il primo imperativo è far crescere l’aiuto umanitario. Anche quello italiano che quest’anno sarà più che raddoppiato rispetto ai 20 milioni del 2015: il governo lo annuncerà il 4 febbraio alla Conferenza di Londra sulla Siria. L’impegno intemazionale negli ultimi anni è cresciuto, ma le crisi umanitarie sono cresciute più velocemente. Il divario va colmato se vogliamo evitare conseguenze destabilizzanti per la Giordania, il Libano e la stessa Unione Europea.

Le Ong denunciano in continuazione l’impossibilità di far giungere i beni priman, aiuti alla popolazione che soffre…

Certo, la guerra continua, i bombardamenti si moltiplicano e non c’è un unico fronte ma un esplodere di conflitti a macchia di leopardo. L’inviato dell’Onu (Staffan de Mistura, ndr) ha lavorato un anno, senza riuscirci, per ottenere una tregua ad Aleppo. L’assedio è continuato e non c’è stata disponibilità dalle parti in conflitto a venire incontro alle richieste di fermare le armi.

Ma le sanzioni internazionali, gli embarghi della UE e dell’ Onu rimangono…

In Siria si muore per la guerra. Le sanzioni possono essere discutibili e noi italiani siamo sempre stati prudenti nel considerarle risolutive. Ma qui stiamo parlando, purtroppo, di una delle guerre più feroci e che infuria da cinque anni, che ha prodotto oltre 100 mila morti e milioni di rifugiati. Attenzione quindi a non spostare il bersaglio da chi ha la responsabilità di questa situazione: il regime di Bashar al-Assad, Daesh, al-Nusra, i terroristi.

È anche per questo che il terzo negoziato, rinviato ancora a Ginevra, non può fallire?

Non deve fallire perché finalmente si è riconosciuto un principio che l’Italia, il governo, la società civile, la Chiesa, sostengono da sempre: cioè che l’idea di una soluzione solo militare del conflitto sia un’illusione. Le due pregiudiziali che per oltre quattro anni hanno alimentato questa tragedia – da una parte l’impossibilità di un negoziato prima della cacciata diAssad e dall’altra nessun negoziato perché Assad andrebbe sostenuto manu militari – finalmente sono venute meno: si è accettata l’idea che il regime e chi lo avversa possano sedersi a trattare. E superare, con un governo più inclusivo, l’attuale dittatura.

Il nemico comune costituito dai jihadisti, può avere, paradossalmente, una funzione aggregante?

L’accettazione del negoziato, e non di una soluzione affidata ai bombardamenti, si deve a due fattori: il primo è il nemico comune, con il rischio di rafforzamento di Daesh, e l’altro (per alcuni controverso) il contributo che la Russia potrebbe dare. Accompagnando un negoziato che porti alla fuoriuscita di Assad, ma non alla distruzione del regime ripetendo errori fatti in Iraq. Con la transizione che prevede la fuoriuscita di Assad senza la creazione di un vuoto. È una strada difficile, ma è l’unica attraverso la quale si può arrivare al cessate il fuoco previsto dalla road map.

Non c’è il rischio che in Siria si crei però unairrimediabile frammentazione del territorio?

Che ci siano rischi di spinte centrifughe è indubbio. Uno degli ostacoli in questi giorni al lavoro di Staffan de Mistura è stato l’inserimento o meno di elementi delle forze curde siriane nelle delegazioni che negozieranno con Damasco. Ma noi non dobbiamo rassegnarci, tantomeno incoraggiare, questo genere di spinte. Tra un mese saranno cento anni dai cosiddetti accordi di Sykes-Picot (la spartizione del Medio Oriente tra Londra e Parigi, ndr). Che si sia trattato di un assetto post-coloniale con errori e limiti enormi è indubbio, ma metterci oggi a ridisegnare le carte su linee di demarcazione religiosa ed emica andrebbe nella direzione opposta a quello che è necessario. Non abbiamo bisogno di mini-Stati sciiti o sunniti, curdi. Di espulsione di minoranze di cristiani o yazidi perché non hanno la forza di fare i loro miniStati. Abbiamo bisogno – come in Libano e mi auguro presto in Iraq – di autonomia delle diverse comunità salvaguardando gli Stati nazionali.

Lei crede, nonostante tutto, che quest’anno possa arrivare la pace per la Siria?

Non possiamo accettare l’idea che il contrasto tra alcuni Paesi – e mi riferisco in particolare all’aumento di tensioni tra Iran e Arabia Saudita – blocchi una strada che è stata imboccata da tutte le maggiori potenze mondiali. Perché riconoscerebbe una sorta di “diritto di veto”, ma significherebbe anche chiudere gli occhi davanti al disastro che è in corso. Non sarà domani, perché si prospetta un rinvio di qualche giorno. Ma se parte il tavolo del negoziato a Ginevra l’obiettivo di porre fine alla guerra entro quest’anno diventa realistico.

In Libia stanno affluendo centinaia di jihadisti da Siria e Iraq. Se il governo Sarraj verrà legittimato dal voto del Parlamento, entrerà in carica. Ma come primo atto, chiedendo un intervento internazionale di supporto, non rischia di scatenare una guerra che potrebbe diventare incontrollabile?

Noi abbiamo interessi chiari e credo coincidenti con quelli del popolo libico: evitare uno Stato fallito, mantenere la sua unità e consolidare le sue istituzioni. Con il sostegno della comunità intemazionale. E con il presupposto che il governo vedala luce con il sostegno parlamentare. Questa è la scommessa dei prossimi giorni. Qualcuno dice «stiamo perdendo tempo, meglio far partire i cacciabombardieri contro Daesh, prima che dalla sua roccaforte di Sirte si estenda pericolosamente». Non è la linea dell’Italia, oggi sarebbe un errore perché puntiamo a qualcosa di più ambizioso del contenimento del terrorismo: alla costruzione di un’entità statuale per avere un interlocutore valido, al di là del Canale di Sicilia, sul tema delle migrazioni, dello sviluppo economico- commerciale, ma anche del contrasto al terrorismo. I bombardamenti possono ridurre la capacità espansiva di Daesh, ma l’entità statuale che si rafforza e che controlla il territorio è l’unica risposta strategica.

Senza alcun intervento esterno?

Se e quando il governo libico riuscirà ad avere la base minima di cui parlavo, la risoluzione 2259 dell’Onu non solo autorizza ma fa appello alla comunità internazionale per sostenere il governo anche sul terreno della sicurezza. Sarà la Libia a chiedere all’Italia e agli altri Paesi Ue il contributo di cui ha bisogno. Deve essere chiaro però che l’impegno italiano, anche sul terreno militare, non sarà per fare delle guerre lampo ma per stabilizzare il Paese. Per esempio con il contributo alla sicurezza di alcune zone di Tripoli dove potrebbe insediarsi il nuovo governo, Stiamo parlando certamente di missioni che hanno dei rischi. L’importante è capire l’orizzonte nel quale ci si muove. Non ci rassegniamo però a una cosa.

Quale?

Non ci rassegniamo all’idea che, non essendoci invece alcun governo libico, ci sia una sorta di grande Somalia al di là del Canale di Sicilia. Terreno di scorribande di gruppi criminali e terroristi contro i quali le potenze europee intervengono solo con i raid aerei da l0mila metri di altezza.

Non ci si rassegnerà o non si tollererà?

Non si tollererà, poi naturalmente se dalle parti libiche non ci sarà alcuna possibilità di pervenire ad un accordo e se la situazione sarà appunto quella di una Somalia a due-trecento chilometri da casa allora l’Italia ha il diritto e il dovere di difendersi e valutare come farlo. Ma non è oggi nella nostra agenda: la comunità internazionale è impegnata per la stabilizzazione del Paese.

Fonte: Ministero Esteri Italiano

Iran-Saudi Arabia: the most dangerous fight

Politics di

 

The contrast between Iran and Saudi Arabia, which has been a sort of Cold War for years, is likely to turn into a “hot” conflict. The rivalry between the two Middle East big powers is everything but new. However, latest events –the execution of Shia cleric Nimr al-Nimr, the continuous drop in oil price and the end of international sanctions against Iran- have added fuel to the fire, thus causing concern about the regional and global stability.

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The reasons behind tensions

The religious factor. Saudi Arabia, almost entirely Muslim, has a Sunni-majority population (the real family professes the Wahhabi ideology, a minor stream of Sunni Islam). Shiites, around 15% of the population, are concentrated in the eastern province of Al-Sharqiyah. They push for autonomy and the monarchy accuses Iran to foster their aspiration. By contrast, the Islamic Republic represents Shia Muslims, who are more than 90% of Iranian population. Self-proclaimed as protectors respectively of Sunni and Shia communities, SA and Iran stand for opposite tradition and interests, which result in a real sectarian conflict.

The black gold. SA is one of the biggest producer of crude oil and in 2014 the country has significantly increased its production, resulting in a price collapse which was aimed to target not only Iranian market and Moscow’s revenue, but also to make it economically inconvenient for the USA the extraction of shale oil. However, Riyadh’s plans haven’t gone perfectly, with US and Russia still playing a leading role in the energy market. A considerable setback for Saudi Arabia, at a time when the lifting of international sanctions against Iran pushes one of SA biggest competitor back in the game.

The regional hegemony. SA has a significant geopolitical weight, due both to its strong participation in regional and global affairs, but also to its relationship with the Gulf countries and the US. This position has often turned into an attempt to impose its political and religious leadership in the region. This fact not only raises friction within the Gulf Cooperation Council (GCC) –for example with Qatar- but also makes it almost impossible a peaceful coexistence with Iran. On the other hand, in fact, the Islamic Republic, after decades of international isolation, aims to establish its supremacy in the Middle East, where SA, along with Israel-a Jewish country, friend to the US- curbs its ambition.

What future?

It is hard to believe that some form of cooperation between Iran and SA is possible, especially after the killing of the Shia leader Nimr al-Nimr, who encouraged Saudi Shiites to take side against the government and along with Iran. The execution of the leader is a clear message to the population, while the following break of diplomatic relations is a clear political signal. The consequences are not late to come: the UAE, Kuwait, Sudan, Qatar and Bahrain have already ceased the relations with the Islamic Republic.

Similarly, an open conflict is unlikely to happen. With a budget deficit of about $100 billion, it would be illogical for the Saudi monarchy to undertake an armed conflict. Iran has just been freed from those sanctions that have hampered country’s development, while it’s showing openness towards the US. Declaring war to SA could play against its own interest, inevitably involving other powers-USA, Russia, Israel- and adding new instability to the already volatile game of power in the region.

This condition of “cold war” is the most likely scenario, with peaks of tension between the Iranian and Saudi capitals, and “hot” clashes confined to peripheral theatres like Yemen, Syria and Bahrain, where Tehran and Riyadh support respectively Shia and Sunni groups.

Unfortunately, another actor plays a key role in this context: the Islamic State. ISIS is spreading among Sunni community, thus worrying Riyadh, which is trying to preserve its influence among Sunni population. On the other hand, Iran is fighting ISIS forces but only to a certain extent. Indeed, Iran could benefit from a conflict between ISIS and SA, as this could gradually weakens both the actors, thus leaving Iran free to confirm itself as regional leader. However, the serious risk is that this game gets out of control, considering the support that ISIS is still finding locally and globally.

It seems that the instability in Middle East is doomed to persist. Moreover, these tensions might break out in a series of conflicts at several levels, involving several actors and following multiple and different political agendas. Will there be a second Iraq, with a vacuum of power and foreign powers ready to step in or it will be one of the regional rival to take the lead? Or will the most feared actor win and the entire Middle East fall under the brutal force of jihadist terrorism?

 

Paola Fratantoni

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Indonesia considering new anti-terrorism legislation. Fears of repercussions on the human-rights

Senza categoria di

 After the attacks that hit Jakarta last week, concluded with the death of four civilians and four attackers, Indonesian President Joko Widodo asked yesterday the review of anti-terrorism laws in force in the archipelago.

The proposed amendment would clearly go in the direction of a tightening of security controls, and allows security forces to immediately arrest any person suspected of planning terrorist attacks. The police fear that Indonesian jihadists engaged in Middle – East and North Africa may return home to prepare new attacks.

The proposal has generated concerns because many feel that a new more restrictive anti-terrorism law could lead to an excessive increase of the controls and be used as a tool of repression in a country that has already suffered from the weakness of its rule of law.

The new legislation would also allow the police to detain suspects for more than a week (current limit), without charge, and would make illegal any military activity with the Islamic State in Iraq and Syria. According to local authorities estimates, some 500 Indonesians have already left to fight as foreign fighters alongside jihadists of Daesh. 100 of these have already returned without having gained ,however, in most cases, combat experience.

The reform advocated by President Widodo should be approved quickly enough, given the cross support expressed by the majority of political forces represented in Parliament. Only some opposition parties have expressed their fears for a change that could result in suppression of dissent and freedom of expression. Along the same lines were, concerns were expressed by human rights organizations and radical Islamic groups.

It is feared that, in the wake of the attacks, the country can take a step back on the path of democracy, giving the police powers similar to those exercised during the 32 years of bloody dictatorship of General Suharto, when hundreds of thousands of dissidents accused of communism were persecuted and brutally murdered by militia supported by the regime.

Mosul e i dubbi sull’invio dei militari italiani a difesa della diga

Asia/Difesa di

È la più grande dell’Iraq e la quarta in tutto il Medio Oriente. Stiamo parlando della ormai famosa diga di Mosul, emblema, da mesi, di un eventuale nuovo intervento militare da parte dell’Italia sul territorio iracheno.

Lo scorso dicembre, infatti, il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha dichiarato che lo stato attuale della diga è seriamente compromesso e dal momento che l’appalto per la rimessa in sicurezza sembrerebbe vinto da un’azienda italiana, la Trevi S.p.a., l’unica ad aver presentato l’offerta economica per la manutenzione della diga, il governo sarebbe disposto ad inviare 450/500 militari a difesa dei tecnici che lavoreranno sul posto. L’annuncio di Renzi fa eco su tutti i giornali online e offline, alimentando anche perplessità sull’impiego strategico di un contingente sul posto. Generalmente, infatti, le grandi aziende che operano in aree di crisi, si autofinanziano per la propria sicurezza attraverso agenzie di contractors che vengono ingaggiati per la sicurezza dei propri dipendenti.

Quale obiettivo strategico si nasconde dietro alle parole del Presidente del Consiglio? Ancora non è chiaro e in risposta alle dichiarazioni di Renzi, c’è subito la contropartita del Ministro della Difesa, Roberta Pinotti, che ha assicurato che i militari italiani interverranno solo ed esclusivamente a protezione del sito. Ricordiamo che Mosul è la seconda città dell’Iraq e che ha visto l’avanzata del sedicente Stato islamico per poi essere riconquistata dai combattenti peshmerga che controllano tuttora la zona. Ma Mosul, definita anche attuale capitale del califfato nel nord dell’Iraq, oggi è anche teatro dei raid americani. È solo di un paio di giorni fa infatti, la notizia del bombardamento del deposito di denaro dell’Isis.

Intanto, sull’ipotetico intervento militare italiano in Iraq, si esprime anche il ministro delle risorse idriche iracheno, Mushsin Al Shammary, che in un colloquio con l’ambasciatore italiano, ha affermato che l’Iraq “non ha bisogno di alcuna forza straniera per proteggere il suo territorio, i suoi impianti e la gente che ci lavora”, e che ogni eventuale dispiegamento di truppe italiane sul territorio iracheno, potrà avvenire solo ed esclusivamente attraverso intese con il governo locale. Allo stato attuale mancano le basi degli accordi internazionali tra i due governi e per la Trevi si allunga l’attesa, così come per la diga, la cui distruzione rischia di mettere in pericolo la popolazione delle province di Ninive, Kirkuk e Salahuddin, causando danni nella pianura dell’Eufrate fino a Baghdad, 350 chilometri a sud di Mosul.

Paola Longobardi

Iran-Arabia Saudita: lo scontro più pericoloso

Medio oriente – Africa/POLITICA di

Il contrasto tra Iran e Arabia Saudita, da anni caratterizzato da una sorta di guerra fredda, rischia oggi di assumere dei risvolti piuttosto “caldi”. La rivalità tra i due big power del Medio Oriente non è un fatto nuovo. Tuttavia, gli avvenimenti recenti – l’uccisione del leader religioso Nimr al-Nimr, il crollo del prezzo del greggio e la fine delle sanzioni internazionali nei confronti dell’Iran- hanno gettato nuova benzina sul fuoco, destando preoccupazioni per l’equilibrio regionale e globale.

I perché delle tensioni

L’elemento religioso. L’Arabia Saudita, quasi totalmente musulmana, presenta una netta maggioranza della componente sunnita (la stessa famiglia regnante appartiene all’ideologia wahhabita, corrente minoritaria dell’Islam sunnita). Gli sciiti, circa il 15% della popolazione, sono concentrati nella provincia orientale di Al-Sharqiyya. Essi premono per l’autonomia della regione e la monarchia accusa proprio l’Iran di alimentare tali aspirazioni. La Repubblica Islamica rappresenta, invece, la corrente musulmana sciita, con una percentuale di fedeli superiore al 90%. Proclamatesi rispettivamente protettori della comunità sunnita e sciita, Arabia Saudita e Iran si fanno portavoce di tradizioni ed interessi opposti, che sfociano in un vero e proprio conflitto settario.

L’oro nero. L’Arabia Saudita è uno dei maggiori produttori di greggio e dal 2014 ha aumentato notevolmente la produzione, determinando un crollo del prezzo che aveva come obiettivo non solo colpire il mercato iraniano e le entrate di Mosca, ma anche rendere economicamente impraticabile per gli USA l’estrazione dello shale oil. Tuttavia, i piani di Riyadh non sono andati alla perfezione, con Stati Uniti e Russia che continuano a giocare un ruolo di punta nel mercato energetico. Uno smacco non indifferente per la monarchia saudita, proprio nel momento in cui la fine della sanzioni internazionali contro l’Iran rilancia nei giochi uno dei maggiori competitor.

L’egemonia regionale. L’Arabia Saudita gode di un peso geopolitico notevole, dovuto sia alla sua forte partecipazione nelle dinamiche regionali e globali ma anche ai rapporti instaurati con i paesi del Golfo e l’alleato statunitense. Tale posizione si è spesso tradotta in tentativo di imporre la propria leadership politica e religiosa nella regione. Ciò non solo desta attriti all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC)-ad esempio con il Qatar- ma rende pressoché impossibile una pacifica convivenza con l’Iran. Dall’altro lato, infatti, la Repubblica Islamica, reduce da quarant’anni di isolamento internazionale, mira a stabilire la propria egemonia nel Medio Oriente, dove non vi è soltanto l’Arabia Saudita a frenare le sue aspirazioni ma anche Israele, paese ebraico nonché alleato degli USA.

Quale futuro?

Difficile pensare ad una qualche forma di cooperazione tra Iran e Arabia Saudita, soprattutto dopo l’uccisione da parte di quest’ultima di Nimr al-Nimr, leader sciita che aveva incoraggiato gli sciiti sauditi a schierarsi contro il proprio governo e accanto all’Iran. L’esecuzione del leader è un chiaro messaggio alla popolazione, così come la chiusura delle relazioni diplomatiche è un chiaro segnale politico. Le ripercussioni non sono tardate ad arrivare: Emirati Arabi, Kuwait, Sudan, Qatar e Bahrein cessano infatti i rapporti con la Repubblica Islamica.

Una guerra aperta appare altrettanto improbabile. Con un deficit di bilancio di circa 100 miliardi di dollari, sarebbe poco logico per la monarchia saudita intraprendere un conflitto armato. L’Iran si è appena liberato di pesanti sanzioni che da decenni bloccavano la prosperità del paese e sta dimostrando una certa apertura nei confronti degli USA. Dichiarare guerra all’Arabia Saudita potrebbe giocare contro i propri interessi, coinvolgendo inevitabilmente altre potenze –USA, Russia, Israele- e gettando nuova instabilità sui già volatili giochi di potere regionali.

Rimane più plausibile il perdurare di questo stato di “guerra fredda” con picchi di tensione tra la capitale iraniana e quella saudita, e scontri caldi confinati ai teatri periferici, come Yemen, Bahrein o Siria, dove Teheran e Riyadh, supportano rispettivamente fazioni sciite e sunnite.

C’è però un altro attore che gioca un ruolo capillare in questo contesto: l’Islamic State. L’ISIS sta prendendo sempre maggior piede tra la comunità sunnita, ponendo dunque in serio allarme Riyadh, intenta a salvaguardare la propria influenza tra la popolazione sunnita. Dall’altro lato, l’Iran sciita combatte sì le forze dell’ISIS ma fino ad un certo punto. L’Iran, infatti, può trarre vantaggio dallo scontro ISIS-Arabia Saudita in quanto il conflitto tra questi due attori può progressivamente indebolire entrambi, lasciando l’Iran libero di affermarsi come leader nella regione. Vi è, tuttavia, il rischio che un simile gioco finisca fuori controllo, soprattutto visto l’appoggio che l’ISIS continua ad ottenere sia localmente sia a livello globale.

Pare, dunque, che la condizione di instabilità in cui versa il Medio Oriente sia destinata a continuare. E sembra plausibile che le tensioni sfocino in un’esplosione di conflitti su diversa scala con una pluralità di attori e agende politiche coinvolte. Ci sarà un secondo Iraq, con un vuoto di potere dilagante e potenze straniere pronte a scendere in campo o sarà uno dei due pretendenti al dominio regionale ad avere la meglio? Oppure sarà l’attore più temuto a spuntarla e l’intero Medio Oriente finirà nel pugno armato del terrorismo islamico jihadista?

Libya: yes to government

BreakingNews @en di

Member of Presidency Council has named new national unity government, assembled by Prime Minister Fayez al Sarraj, four vicepresidents and 19 of 32 ministers. Conversely, the lacking designation of Ministry of Defence to Khalifa Haftar has caused abstention of two Tobruk representatives. Now HoR will have to ratify new government.

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The political representatives International welcomed the news, as the UN envoy Martin Kobler: “The formation of the government of national accord is one important leap on the path to peace and stability in Libya.  But now parliament have to endorse the unity government”.

“We are facing a real opportunity to stabilise the country, which must be seized by everyone. Now it is essential for the Chamber of Representatives in Tobruk to hastily approve the list of cabinet members,” Paolo Gentiloni, Italy’s foreign minister, said,

In addition to Prime Minister Fayez al Sarraj and the four vicepresidents representing the whole Libya, here is the list of new ministers:

Marwan Ali, Foreign Affairs;
al Taher Mohamed Sarkaz, Finances;
Khalifa Rajab Abdul Sadeq, Oil;
Mohamed Faraj al Mahjoub, Internation Cooperation;
Bedad Qonso Masoud, Internal Governance;
Mohamed Soliman Bourguiba, Health;
Khair Melad Abu Baker, Education;
Mahmud Gomaa, University;
Abdul Motalib Boufarwa, Economy;
Khaled Muftah Abdul Qader, Economic Development;
Atef al Bahary, Telecommunications;
Hisham Abdullah, Transport;
Faraj al Taher Snoussi, Industry;
Osama Saad Hamad, Electricity;
Adel Mohamed Sultan, Agricolture;
Faddy Mansour al Shafey, Labor;
Mokhtar Abdullah Gouili, Vocational Training;
Ahmed Khalifa Bridan, Community Affairs;
Osama Mohammed Abdul Hady, Water Resources.
Giacomo Pratali

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Libia, ecco il governo

Dopo oltre un mese dall’accordo di Skhirat, è arrivata la lista del nuovo governo di unità nazionale libica, con a capo Fayez al Sarraj, scelto dal Consiglio di Presidenza. Polemiche sulla scelta del Ministro della Difesa, rimasto non assegnato: la non designazione del generale Khalifa Haftar ha portato al non voto da parte di due rappresentanti di Tobruk. Adesso, si attende la ratifica da parte del parlamento. Mentre è ancora in corso la riunione di oggi alla Farnesina tra i Paesi già presenti alla Conferenza di Roma di dicembre: la designazione del nuovo esecutivo, infatti, dovrebbe portare con sé un prossimo intervento militare internazionale nello Stato nordafricano.

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I rappresentanti politici internazionali hanno accolto con favore la notizia, data alla stampa dal rappresentante dell’ONU in Libia Martin Kobler, che poi ha aggiunto: “Esorto l’HoR (il parlamento libico, ndr) a riunirsi prontamente e ad approvare il governo”. Stesso concetto, quella della ratifica del nuovo esecutivo, ribadito anche dal Ministro degli Affari Esteri italiano Paolo Gentiloni.

Eppure, anche questo tanto agognato accordo ha rischiato di saltare. Nella lista dei 19 ministri manca infatti il rappresentante del Dicastero della Difesa. Per questo motivo, la mancata nomina dell’uomo forte di Tobruk, il generale Haftar, ha scatenato l’astensionismo di due rappresentanti del governo riconosciuto dalla comunità internazionale facenti parte del Consiglio di Presidenza.

Oltre al premier Fayez al Sarraj e ai quattro vicepremier in rappresentanza delle zone del Paese, ecco la lista dei nuovi ministri:
Marwan Ali per il ministero degli Esteri;
al Taher Mohamed Sarkaz per le delle Finanze;
Khalifa Rajab Abdul Sadeq per il Petrolio;
Mohamed Faraj al Mahjoub per la Cooperazione internazionale;
Bedad Qonso Masoud per la Governance locale;
Mohamed Soliman Bourguiba per la Salute;
Khair Melad Abu Baker per l’Istruzione;
Mahmud Gomaa per l’Istruzione superiore;
Abdul Motalib Boufarwa per l’Economia;
Khaled Muftah Abdul Qader per la Pianificazione;
Atef al Bahary per le Telecomunicazioni;
Hisham Abdullah al ministero dei Trasporti;
Faraj al Taher Snoussi per l’Industria;
Osama Saad Hamad per l’Energia elettrica;
Adel Mohamed Sultan per l’Agricoltura;
Faddy Mansour al Shafey per il Lavoro;
Mokhtar Abdullah Gouili per la Formazione professionale;
Ahmed Khalifa Bridan per gli Affari sociali;
Osama Mohammed Abdul Hady per le Risorse idriche.
Giacomo Pratali

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“Mare Sicuro” , ridislocati 4 AMX alla base di Trapani

Difesa di

Incremento della sorveglianza nel Mediterraneo nell’ambito delle misure adottate dal Governo con l’operazione “Mare Sicuro”. A seguito dell’aggravarsi delle criticità nei paesi del Nord Africa e del conseguente deterioramento delle condizioni di sicurezza, sono stati ridislocati temporaneamente 4 velivoli AMX del 51° stormo di Istrana (TV) presso la base di Trapani Birgi in Sicilia. Scopo del potenziamento, l’aumento [youtube]http://youtu.be/HPA_0rqwER0[/youtube]della capacità di controllo e acquisizione informazioni, a tutela dei molteplici interessi nazionali e per la garanzia di coerenti livelli di sicurezza.
Viviana Passalacqua

 

“Safe Sea”, 4 AMX redeployed in Trapani base

Defence di

Increased surveillance in the Mediterranean as part of the measures taken by the Government with the operation “Safe Sea”. Following the critical issues in the countries of North Africa and the consequent deterioration of security conditions, 4 AMX aircraft of 51 Squadron of Istrana (TV) were temporarily redeployed in the Trapani Birgi base, in Sicily. The enhancement is aimed to increase ability to control and acquisition of information, to protect the multiple national interests and to guarantee consistent levels of security.

Viviana Passalacqua

Libano, esempio unico di convivenza interconfessionale

Medio oriente – Africa di

Il Libano è un modello unico di convivenza inteconfessionale, Sunniti, Sciiti , cristiani maroniti e drusi sono riusciti a trovare uno stabile equilibrio tra le varie religioni.

Il mantenimento di questa stabilità è molto importante per la missione UNIFIL che ha promosso un incontro presso la base di Shama con le maggiori autorità religiose del paese.

Erano presenti all’incontro il  Mufti sciita di Tiro, Hassan Abdullah, il Mufti sunnita, Medrar Al Habbal, l’arcivescovo greco cattolico, Michael Antoine Nakhle Abrass, e l’arcivescovo maronita, Nabil El Hage.

L’incontro è stato il momento ideale per affrontare alcuni importanti punti di dialogo tesi alla convivenza pacifica tra I diversi culti.

20160111 Pranzo con autorità religiose a SW-102Il Comandante del Sector West, Generale Franco Federici, ha sottolineato come nel sud del Libano, caratterizzato da grande multiculturalismo e interconfessionalità, si respiri grande armonia. Ciò anche grazie all’impegno di UNIFIL e del contingente italiano, molto attento a promuovere e stimolare il dialogo tra le confessioni.

Tante sono, infatti, le dimostrazioni di rispetto degli uni verso gli altri: solo per citare un esempio, nelle recenti festività natalizie, i rappresentanti musulmani si sono recati nei villaggi cristiani per gli auguri, cosa che si ripete in maniera vicendevole. “Il nostro auspicio”, ha concluso il Generale Federici, “è che questa armonia tra confessioni possa andare oltre i confini del Libano”.

Non solo, nella quotidianità, spesso si assiste ad una collettiva volontà di festeggiare le festività religiose di ogni confessione con un profondo rispetto reciproco.

I cittadini libanesi antepongono il proprio patriottismo alla confessione religiosa riuscendo a mantenere una unità molto forte in tutto il paese..

Obiettivo primario per la missione UNIFIL è il mantenimento di una pace stabile e in questo senso riuscire a migliorare la collaborazione con I leader spirituali per le attività di cooperazione e per il support alla popolazione civile diventa un punto essenziale della strategia di distensione della missione.

Tutte le autorità convenute hanno rivolto apprezzamento e gratitudine ai caschi blu italiani, per il contributo fornito  al  mantenimento della stabilità e della sicurezza nell’area del Sud, –  “Il periodo di stabilità che si vive in questa parte del Paese è uno dei più lunghi  che si ricordi nella nostra storia recente –  hanno commentato – la convivenza in Libano è un valore irrinunciabile”.

[youtube]https://youtu.be/39zzGLN6ZZ4[/youtube]

Alessandro Conte
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