GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Dicembre 2015 - page 4

Gran Bretagna, gli inglesi e l'Europa

EUROPA di

In un momento d’allarme in Europa, la Gran Bretagna riprende il dibattito circa la sua permanenza o meno all’interno dell’Unione Europea. Il paese appare diviso a metà. Gli ultimi sondaggi riportano la maggioranza dei votanti favorevoli alla “Brexit” -l’uscita del paese dall’UE-, mentre solo il 47% appoggia la membership. Altrettanto spaccata è la classe politica, con il partito indipendentista (UKIP) che preme per la scissione ed un Primo Ministro che tenta di negoziare condizioni più favorevoli. Il tutto in attesa del referendum di fine 2017, che darà modo al popolo britannico di esprimere la propria opinione.

La nazione al di là della Manica ha sempre goduto di una posizione particolare nel continente, vicina sì alle dinamiche europee, ma contemporaneamente isolata abbastanza da esserne protetta. Da un punto di vista politico, la Gran Bretagna fa parte dell’UE, sebbene non ne condivida tutti gli aspetti. La sterlina ha avuto la meglio sull’euro; il trattato Schengen, invece, non arriva oltre Callais. Non solo. Pur mantenendo una posizione economica forte, Londra ha fallito nel giocare un ruolo leader nel continente, obiettivo più spesso tentato (e realizzato) da Francia e Germania. Eppure, la National Security Strategy sottolinea la volontà di mantenere un ruolo di guida a livello regionale ed internazionale.

Sorge, quindi, spontanea una domanda: che cosa vogliono di preciso gli inglesi? 4 le richieste di Cameron. In primis, il riconoscimento di un’Unione multi-valuta, al fine di tutelare maggiormente gli interessi dei paesi non aderenti alla moneta unica. Secondo, l’abolizione di regole e limiti inutili che frenano la crescita e la competitività del mercato europeo. Terzo, maggiore sovranità (per tutti i parlamenti nazionali), conferendo il diritto di non aderire a determinate riforme o politiche (opzione opt-out). Infine, maggiori controlli sull’immigrazione e concessione di benefici agli stranieri solo dopo 4 anni di residenza nel paese.

Pretese comprensibili? Analizziamo tre aspetti principali, che sintetizzano ciò che l’Europa rappresenta per la Gran Bretagna.

  • La GB gode dei benefici di un mercato singolo basato sulla libera circolazione di beni, servizi e capitali. Ciò facilita l’esportazione dei prodotti inglesi a prezzi competitivi, aspetto che risulterebbe compromesso qualora scegliesse di lasciare l’Unione. In quest’ottica, il paese non sarebbe più vincolato dalla legislazione europea vigente, ma molti stati potrebbero trovare più conveniente concludere affari con i “fratelli” del blocco europeo.
  • Nonostante difetti o debolezze interne, l’Unione Europea rappresenta –o almeno dovrebbe- la “voce d‘Europa”. Esserne membro significa avere a disposizione un mezzo per esprimere i propri punti di vista e proteggere gli interessi nazionali, facendosi portavoce di quelli comuni. Essere escluso da questo circolo porterebbe il Regno Unito ad essere una voce isolata, un outsider, a perdere contatto con la realtà europea e la possibilità di assumere la leadership del continente.
  • Una politica di difesa comune che dovrebbe garantire maggior efficacia rispetto all’azione dei singoli stati. Ma c’è un rovescio della medaglia: pur non aderendo agli accordi di Schengen, la libera circolazione impone alla Gran Bretagna di applicare meccanismi di controllo più semplici per chi viaggia dai paesi UE (es. non è richiesto il visto). Sin dalla fine della guerra nei Balcani, l’abolizione delle barriere ha facilitato il trasporto di armi. Oggi, la storia si ripropone, aggiungendo alle armi, la circolazione di cellule terroristiche, dotate di passaporti europei e libere di spostarsi di paese in paese bypassando ogni tipo di controllo. All’indomani degli attentati di Parigi, diversi membri UE hanno messo in dubbio questo regime.

Quale sarà, dunque, la scelta inglese? Potrebbe verificarsi una tendenza verso l’isolazionismo, per cercare sicurezza e benessere economico al di fuori del blocco europeo. Ma può bastare a garantire un futuro più sicuro alle isole britanniche? Molti dubbi a riguardo. Focolai di tensione e pericoli sono già radicati nella società inglese, UE o no. E farsi carico di una battaglia politica, economica e sociale da soli potrebbe essere meno semplice di quanto sembri. Dall’altro lato, potremmo assistere ad una GB che, forte delle concessioni ottenute, si impegna per rafforzare l’Unione e assumere le guida di un continente che sembra aver perso orientamento e compattezza. Altrettanti dubbi. Quello di Cameron sembra più un ennesimo tentativo di rimanere con un piede dentro ed uno fuori. “Yes, but…”, un atteggiamento non nuovo a Downing Street.

Ma è giusto in un’istituzione di 28 membri assecondare gli interessi di un singolo come condizione chiave per mantenerne l’adesione? Se Londra può avere condizioni particolari allora anche Budapest, Madrid o Praga ne hanno diritto. E qual è il senso di un’Unione se ognuno vi partecipa solo nella misura in cui più gli giova?

Paola Fratantoni

CYBER SECURITY. PRESENTE E FUTURO

Varie di

baldoni-roberto-ansa-258

Dopo gli attentati di Parigi anche in Italia si sono accese le luci della ribalta per la Cyber Security, indicata più volte come la migliore soluzione per combattere i nemici che minacciano il nostro mondo. A prescindere dalle iperboli dei politici nostrani, e’ indubbio che si tratti di un tema che figura sull’agenda di tutti i decision maker, pubblici e privati, del mondo.  L’Italia, una volta tanto, potrebbe essere fra i paesi leader del settore, nonostante l’indifferenza della politica e dell’opinione pubblica. E questo grazie al lavoro portato avanti negli ultimi anni dal settore della ricerca che, nel Novembre 2015, ha presentato al paese il white paper “Il Futuro della Cyber Security in Italia” edito dal Laboratorio Nazionale di Cyber Security CINI – Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica. Frutto di un lavoro multidisciplinare, il documento affronta in modo approfondito tutti gli aspetti legati al mondo cyber, da quelli tecnologici a quelli sociali, senza dimenticare politica ed economia.

European Affairs ha incontrato il Prof. Roberto Baldoni, direttore del Laboratorio Nazionale di Cyber Security e docente universitario, che ha curato, insieme al Prof. Rocco de Nicola, la redazione del libro bianco.

Prof. Baldoni, cos’e’ la Cyber Security?

La Cyber Security consiste nella protezione degli asset tangibili e intangibili (dati e informazioni) appartenenti ad un’organizzazione, una nazione, o un singolo cittadino.

Di fronte alle minacce che arrivano dalla rete sono necessarie soluzioni sistemiche in grado, tramite una catena difensiva ben congegnata, di garantire uno standard di sicurezza accettabile.

E qui il campo si allarga: non solo sicurezza informatica, ma anche coinvolgimento di altri strumenti quali la psicologia, l’implementazione di politiche condivise, il contributo delle aziende e del governo sono necessari a garantire risposte dinamiche e flessibili contro modalità di aggressione che si evolvono di continuo.

Quali sono gli attori di questo rapporto complesso?

Principalmente tre: Governo, Privati e Accademia.

Agendo in materia isolata, nessuno può affrontare contrastare efficacemente le minacce: non i Governi, che non guidano lo sviluppo tecnologico. Non i Privati, che hanno i capitali, ma mancano sia degli strumenti coercitivi che della teoria. Non l’Accademia, che nonostante abbia il know how, manca sia di capitali che di poteri normativi.

Collaborazione e condivisione sono le parole chiave.

Come mettere in atto una strategia efficace?

I pilastri di una strategia cyber efficace sono:

  1. Un sistema di Early Warning, in grado di individuare per tempo le potenziali minacce e allertare gli altri anelli della catena protettiva:
  2. I Gruppi di Intelligence organizzati in un sistema di meeting fra esperti del settore che analizzino preventivamente le minacce future in base allo stato dell’arte della tecnologia al momento disponibile;
  3. L’implementazione di un Framework Nazionale, che mediante la collaborazione fra soggetti diversi, permetta di ampliare nel tempo le difese in un modo economicamente sostenibile;
  4. Information Sharing.

A proposito di condivisione dei dati. Negli Stati Uniti sta suscitando forti resistenze un disegno di legge, lo Sharing Information Act, che “obbligherà” le grandi corporation a condividere le informazioni di cui sono in possesso con gli Enti Federali.Le organizzazioni per i diritti umani hanno lanciato l’allarme Privacy.

La Privacy dei cittadini non e’ necessariamente in pericolo, anzi. Presso i nostri laboratori de “La Sapienza”, tanto per fare un esempio, stiamo conducendo studi avanzati su modalità di trasmissione di dati e informazioni in totale rispetto della riservatezza.

Qualora su di esse gravi un alto livello di privacy, sara’ possibile passare solo la parte di informazione che interessa senza andare ad intaccare la libertà del singolo utente.

Rimaniamo negli Stati Uniti, come valuta la scelta di affidare un ruolo centrale al Dipartimento della Difesa? Assisteremo ad una militarizzazione di Internet?

La rete può diventare un campo di battaglia, come la terra, l’acqua l’aria o lo spazio. Teniamo pero’ presente che una prospettiva di questo genere porterebbe ad un aumento esponenziale dei costi, pertanto, al momento, sembra improbabile.

Dopo gli attentati di Parigi, tutto il mondo avanzato, Italia compresa, evoca la Cyber Security come la panacea per la lotta al terrorismo. E’ davvero così’?

La minaccia Cyber può assumere forme diverse.

Quella di attacchi massicci e strutturati di grandi organizzazioni verso altre, vedi la vicenda Sony. In questo caso la minaccia ha un maggiore grado di prevedibilità e un’adeguata politica di partenariato partenariato privato –  pubblico – accademica e’ in grado di predisporre misure adeguate. Si tratta di uno scenario in cui contano molto le risorse economiche e organizzative.

La seconda forma che può assumere e’ quella del lupo solitario. Un attacco imprevedibile, condotto magari da un ragazzo particolarmente abile, ma senza grandi mezzi, in grado di provocare danni ingenti a privati o aziende.

In questo caso ciò che più conta e’ il grado di sicurezza complessiva del sistema: più e’ avanzato, minori saranno le possibilità’ di successo dell’attaccante.

E’ per questi motivi che abbiamo lanciato l’iniziativa del Framework Nazionale.

Di cosa si tratta?

Si tratta, per dirla con una metafora sportiva, di un campo da gioco dove andremo a fissare, in maniera aperta e condivisa, le regole che un’organizzazione dovrebbe seguire per valutare il grado di sicurezza delle proprie informazioni.

Non si tratta, e’ bene specificarlo, di standard di sicurezza di carattere tecnico. Quelli esistono già. Si tratta piuttosto di 98 regole chiare (denominate framework core), che permettono, ove seguite, di verificare il grado di sicurezza delle policies adottate.

Si tratta di uno strumento importante soprattutto per un paese come il nostro, dove la struttura portante dell’economia sono le PMI, che dispongono di minori risorse rispetto alle grandi corporation.

L’adozione di un Framework aperto e condiviso consentirà ai vertici di avere un pannello di controllo chiaro e diretto per verificare il grado di sicurezza della propria organizzazione e di inserire quindi la cyber security nella catena di creazione del valore aziendale.

Quando diventerà’ operativo?

Il Framework nazionale e’ attualmente disponibile su Internet e lo sara’ fino al 10 gennaio. Si tratta di una fase aperta, in cui tutti possono fornire commenti, suggerimenti, proposte di miglioramento. Al termine di questo periodo il CINI – Cyber Security National Lab rielaborerà il materiale pervenuto e la versione definitiva verra’ presentata il 4 Febbraio 2016.

Daesh: from Paris to Maiduguri

Europe/Middle East - Africa di

Paris attacks, on November 13, pointed out again that the terror threat reached a historical high within European borders. Beyond Syria and Iraq, where Daesh is headquartered, Africa is the favorite ISIS’s target. As proved by the last 15 days.
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More than 83 attacks all over the world from June 2014 to date, as reported by Le Monde. More than 1,600 victims. Raqqa (Syria) and Maiduguri (Nigeria) the most affected cities. Since March 2015, when the Nigerian militant group Boko Haram joined the Caliphate, terrorist actions in Africa have dramatically increased. As well as the several organizations that, from Mali to Egitto, hit in the name of ISIS.

After 129 killed in Paris, others were added from November to today:

Mali: More than 20 people were killed after a raid against Radisson Hotel last November 20. Thanks to military action by French and US special forces, 150 hostages were freed. After the arrest of two suspects, the local terrorist cells attacked on UN base at Kidal, killing 3 people.

Egypt: Two terrorist attacks. The first one, on November 24, was a double suicide attack which killed 4 people on a hotel in North Sinai. The second one, on November 28, when terrorists opened fire on checkpoint in Giza, killing 4 policemen.

Nigeria: Before a truck station, then a Shiite procession. These two places, near the capital Maiduguri, were the two targets of Boko Haram troops. Over 35 and 32 killed.

Camerun: Four different kamikaze actions of four girls killed at least 5 people in Fotokol on 21 November.

Tunisia: 13 killed following a suicide bomb attack against a bus carrying members of Tunisia’s presidential guard on 24 November in Tunis. As well as actions in the Bardo Museum and on Sousse beach last June, Daesh claimed responsibility.
Giacomo Pratali

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Daesh: da Parigi a Maiduguri

EUROPA/Medio oriente – Africa di

L’attacco terroristico a Parigi del 13 novembre ha reso evidente come lo Stato Islamico sia un pericolo anche dentro i confini occidentali. Aldilà di Siria e Iraq, dove ha sede il Califfato, è l’Africa il luogo più colpito dal terrorismo islamico. I fatti degli ultimi quindici giorni ne sono l’ulteriore riprova.

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Sono oltre 83 gli attentati in tutto il mondo dal giugno 2014 ad oggi, riporta il quotidiano francese Le Monde. Oltre 1600 le vittime. Raqqa (Siria) e Maiduguri (Nigeria) le città più colpite. Dal marzo 2015, data dell’affiliazione del gruppo nigeriano Boko Haram al Califfato, le azioni terroristiche nel continente africano sono aumentate a dismisura. Così come le varie sigle che, dal Mali all’Egitto, colpiscono in nome dell’Isis.

Dopo i 129 morti di Parigi, altri se ne sono aggiunti da novembre ad oggi:

Mali: Oltre 20 le persone uccise a seguito di un raid compiuto da un commando jihadista lo scorso 20 novembre all’hotel Radisson di Bamako. Un blitz delle forze speciali francesi e statunitensi ha permesso la liberazione dei circa 150 ostaggi sopravvissuti. Dopo l’arresto di due sospettati, la risposta delle cellule terroristiche locali non si è fatta attendere con l’attacco alla base ONU di Kidal nel nord del Paese, in cui sono morte 3 persone.

Egitto: Due azioni terroristiche. La prima, il 24 novembre, quando un doppio attacco kamikaze, compiuto in un hotel del Sinai del Nord che ospitava alcuni presidenti di seggio, ha portato all’uccisione di 4 persone. La seconda, il 28 novembre, a Giza, quando alcuni terroristi hanno sparato contro un checkpoint, uccidendo 4 poliziotti.

Nigeria: Prima una stazione dei camion, poi una processione sciita. Sono questi i due obiettivi presi di mira dai miliziani di Boko Haram nello Stato di Borno, vicino alla capitale Maiduguri. Rispettivamente oltre 35 e 32 i morti.

Camerun: Quattro differenti azioni kamikaze da parte di altrettante ragazze hanno portato all’uccisione di almeno 5 persone a Fotokol lo scorso 21 novembre.

Tunisia: 13 morti a seguito di un attacco bomba contro l’autobus della guardia presidenziale avvenuto lo scorso 24 novembre a Tunisi. Così come nelle azioni al Museo del Bardo e nella spiaggia di Sousse dello scorso giugno, lo Stato Islamico ha rivendicato l’attentato.

 

Giacomo Pratali

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Libano: Alpini, supporto a popolazione e LAF

Difesa/Medio oriente – Africa di

Si intensifica in Libano l’attività dei militari italiani impiegati nella missione UNIFIL, sui due fronti della cooperazione con le forze armate locali e del supporto alla popolazione. Nei giorni scorsi gli Stati Maggiori del Sector West di UNIFIL, su base Brigata alpina Taurinense, hanno incontrato la 5^ Brigata delle Forze Armate Libanesi (LAF) presso la base di Shama.

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Un importante momento di confronto, volto ad incrementare l’integrazione e le attività congiunte tra i due Comandi attraverso la pianificazione di addestramenti comuni per rendere sempre più efficaci le attività svolte. Parallelamente, vanno avanti le iniziative in favore dei libanesi: a fine novembre la Croce Rossa di Tiro ha ricevuto materiale ospedaliero e sanitario offerto da donors novaresi e consegnato dai militari di ITALBATT, l’unità di manovra del contingente italiano di UNIFIL, attualmente su base Reggimento “Nizza Cavalleria” di Bellinzago Novarese.

“La donazione è stata possibile grazie alla solidarietà e la collaborazione mostrata  dall’Azienda Ospedaliera “Maggiore della Carità”, dal Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, dall’ Associazione Nazionale Alpini – Sez. di Novara e dalla Croce Rossa di Oleggio, organizzazioni importantissime per il territorio novarese che hanno voluto sostenere in maniera attiva le iniziative promosse per il Libano dal Nizza”, ha ricordato il Colonnello Massimiliano Quarto, comandante di Italbatt, nel corso della consegna. La dotazione – che comprende 14 letti da degenza completi di materassi e cuscini ignifughi, 1 montascale per disabili,  5 carrozzelle, 1 seggiolone polifunzionale per disabili e numerose scatole di materiali monouso da ambulatorio – sarà utilizzata dalla Croce Rossa sia per la normale attività del nosocomio, sia per la successiva distribuzione presso i domicili di malati cronici seguiti dall’organizzazione di volontariato.
Viviana Passalacqua

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Lebanon: Alpine B. helps population and LAF

Defence/Middle East - Africa di

The activity of the Italian soldiers engaged in the UNIFIL mission continues both in terms of cooperation with the local armed forces, than of support to the population. In these last days the General Staffs of the UNIFIL Sector West, based Taurinense Alpine Brigade, met the 5th Brigade of the Lebanese Armed Forces (LAF) in the military base of Shama.

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An important meeting, aimed at increasing integration and joint activities between the two Chiefs by planning common trainings. At the same time, the initiatives in favour of the local population carry on: in late November, Lebanese Red Cross of Tiro has received materials for hospital and healthcare, offered by donors from Novara and delivered by the soldiers of ITALBATT, the maneuver unit of the UNIFIL Italian contingent, currently based Nizza Cavalry Regiment.

“The donation was made possible thanks to the solidarity and cooperation shown by the Hospital “Maggiore della Carità”, by the Sacred Military Constantinian Order of St. George, by the “National Alpine Association – Novara section” and by the Oleggio Red Cross, important organizations who wanted to support actively the initiatives promoted for Lebanon by Nizza Regiment, ” as Colonel Massimiliano Quarto, commander of Italbatt, declared during the ceremony. The equipment – which includes 14 inpatient beds with mattresses and fireproof pillows, 1 stair lift and 1 multipurpose chair for disabled, 5 wheelchairs, and numerous boxes of disposables from surgery – will be used by the Red Cross for the normal activities of the hospital, and for subsequent distribution at home for chronic patients followed by the voluntary organization.
Viviana Passalacqua

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Myanmar: Suu Kyi and peaceful transition

Asia @en di

For the new Myanmar of Aung San Suu Kyi is the time of “peace talks”. After the victory of the National League of Democracy (NLD) in the election three weeks ago, the leader of the movement, historical activist for human rights in the former Burma, met President Thein Sein, head of the government that, in 2011, marked the beginning of the democratic transition of the country, after 49 years of military dictatorship.

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The meeting lasted 45 minutes, during which they discussed the terms of a painless handover between the outgoing executive, with a civil profile but supported and appointed by the Junta, and the new government of the NLD, which won the elections of November 8 with an overwhelming majority.

Eight out of ten voters voted for the party of Suu Kyi, even if the know that the Nobel Prize for peace could not directly exercise power, because of constitutional restrictions prohibiting anyone with children of foreign nationality to become prime minister. But Aung San Suu Kyi immediately made clear its intention to play a leading role in the new government. The name of next Prime Minister has not yet been made public, but the most important decisions for the future of the country will be taken by her.

In the role of de facto leader, the Burma ”Iron Orchid ” met, on Dec. 2, the outgoing President Thien Sein and the Army Chief, Min Aung Hlaing. The meeting was held in Nay Pyi Taw, the city 320 kilometers from Yangon, which in 2005 was elevated to the role of capital. In the talk, which lasted less than an hour, Suu Kyi asked the representatives of the old power bloc to ensure a peaceful and painless handover. Sein and Hlaing offered their commitment, ensuring that there won’t be attempts of interference in the way of transition.

The concerns of the leaders of the NLD are dictated by the fact that the military retain a quarter of the seats in both houses of Parliament of Myanmar and, with them, the power of veto over constitutional reforms and key positions in the main ministries. Caution is required in consideration of the dramatic experiences of the past. The party of Aung San Suu Kyi won the election even in 1990, but the result was ignored by the military junta and, since then, Suu Kyi was under house arrest for a total period of 15 years. Confidence, since then, has become a rare commodity.

The victory of the NLD in the elections has generated excitement and new expectations on the path of democratization of the country, especially at international level. According to Miemie Byrd, professor of Burmese origin of the ‘Asia-Pacific Center for Security Studies, interviewed by Al Jazeera, however, optimism is excessive.

” My concern is that the international community’s reaction and interpretation (about elections) could exacerbate the conflicts and challenges inside Myanmar”,” she said, adding that the country still has a long way to go. “Whomever is at the leadership of the new government will be limited by the above challenges to quickly advance the reforms and progress. You just can’t get the bullock cart to go as fast as an automobile. ” The international community, she concluded, must “exercise patience and have realistic expectations” on the speed of the transition process.

 

Luca Marchesini

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Myanmar: Suu Kyi e la transizione pacifica

Sud Asia di

Per il nuovo Myanmar di Aung Saan Suu Kyi è giunto il tempo dei “colloqui di pace”. Dopo la vittoria della Lega Nazionale della Democrazia (NLD) nelle elezioni di tre settimane fa, la leader del movimento, storica attivista per i diritti umani della ex-Birmania, ha incontrato il presidente Thein Sein, Capo del Governo che nel 2011 ha segnato l’inizio della transizione democratica del paese, dopo 49 anni di dittatura militare.

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L’incontro è durato 45 minuti, durante i quali sono stati discussi i termini di un passaggio di consegne indolore tra l’esecutivo in uscita, di stampo civile ma sostenuto e nominato dalla Giunta, ed il nuovo governo della NLD, vincitrice dalle elezioni dello scorso 8 novembre con una maggioranza schiacciante.

Otto elettori su dieci hanno votato per il partito di Suu Kyi, pur sapendo che il premio Nobel per la pace non avrebbe potuto esercitare direttamente il potere, a causa delle restrizioni costituzionali che vietano a chiunque abbia figli di cittadinanza straniera di diventare primo ministro. Aung Saan Suu Kyi ha però fin da subito chiarito l’intenzione di svolgere un ruolo di guida per il nuovo governo. Il nome di chi ricoprirà il ruolo di primo ministro non è ancora stato reso pubblico, ma sarà lei a prendere le decisioni più importanti per il futuro del paese.

Nelle vesti di leader de facto, l’”Orchidea di acciaio” della Birmania ha incontrato, il 2 dicembre, il presidente uscente Thien Sein ed il capo dell’esercito, Min Aung Hlaing. L’incontro ha avuto luogo a Nay Pyi Taw, la città a 320 chilometri da Yangon che nel 2005 è stata elevata al ruolo di capitale. Nel colloquio, durato meno di un ora, Suu Kyi ha chiesto ai rappresentanti del vecchio blocco di potere di garantire un passaggio di consegne pacifico e indolore. Sein e Hlaing hanno offerto il proprio impegno, assicurando che non ci saranno tentativi di disturbo sulla via della transizione.

Le preoccupazioni della leader della NLD sono dettate dal fatto che i militari conservano un quarto dei seggi nelle due camere che compongono il Parlamento del Myanmar e, con essi, il potere di veto sulle riforme costituzionali e ruoli chiave nei ministeri di maggiore peso. La prudenza è d’obbligo anche in considerazione delle drammatiche esperienze del passato. Il partito di Aung Saan Suu Kyi vinse le elezioni anche nel 1990, ma il risultato venne ignorato dalla giunta militare e, da allora, Suu Kyi fu costretta agli arresti domiciliari per un periodo complessivo di 15 anni. La fiducia, da allora, non è diventata una merce rara.

La vittoria della NLD alle elezioni ha generato entusiasmo e nuove aspettative sul percorso di democratizzazione del paese, soprattutto a livello internazionale. Secondo Miemie Byrd, professoressa di origine birmana dell’ Asia-Pacific Center for Security Studies, interpellata da Al Jazeera, l’ottimismo è però eccessivo.

“Temo che la reazione e l’interpretazione della comunità internazionale (circa le elezioni, ndr), possano esacerbare i conflitti e le sfide attualmente in corso in Myanmar”, ha detto, aggiungendo che il paese ha ancora molta strada da fare sulla via del cambiamento. “Chiunque sarà a capo del nuovo governo sarà limitato dalle sfide precedenti e non potrà procedere velocemente verso le riforme e il progresso. Non puoi prendere un carro da buoi e farlo andare veloce come una macchina”. “La comunità internazionale – ha concluso – dovrà esercitare la sua pazienza ed avere aspettative realistiche” sui tempi del processo di transizione.

 

Luca Marchesini

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Luca Marchesini
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