GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Dicembre 2015 - page 3

Libia: nuovo governo e intervento ONU

Al termine della conferenza internazionale sulla Libia di Roma, il sottosegretario di Stato USA Kerry annuncia la formazione di un governo di unità nazionale entro “40 giorni”. I Paesi e le organizzazioni internazionali presenti varano un documento d’intenti, in attesa della risoluzione ONU del 17 dicembre su un intervento militare.

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“Affermiamo il nostro pieno appoggio al popolo libico per il mantenimento dell’unità della Libia e delle sue istituzioni che operano per il bene dell’intero paese. E’ necessario con urgenza un Governo di Concordia Nazionale con sede nella capitale Tripoli al fine di fornire alla Libia i mezzi per mantenere la governance, promuovere la stabilità e lo sviluppo economico. Siamo a fianco di tutti i libici che hanno richiesto la rapida formazione di un Governo di Concordia Nazionale basato sull’Accordo di Skhirat, ivi compresi i rappresentanti della maggioranza dei membri della Camera dei Rappresentanti e del Congresso Nazionale Generale, degli indipendenti, delle Municipalità, dei partiti politici e della società civile riunitisi a Tunisi il 10-11 dicembre. Accogliamo con favore l’annuncio che i membri del dialogo politico firmeranno l’accordo politico a Skhirat il 16 dicembre. Incoraggiamo tutti gli attori politici a firmare questo accordo finale il 16 dicembre e rivolgiamo a tutti i libici un appello affinché si uniscano nel sostegno dell’Accordo Politico per la Libia e il Governo di Concordia Nazionale”.

Questo il passo più importante del comunicato congiunto emesso al termine della conferenza internazionale sulla Libia, tenutasi a Roma il 13 dicembre e promossa dalla Farnesina. Il documento è stato firmato da UE, ONU, LAS, UA e dai 17 Paesi partecipanti: Algeria, Arabia Saudita, Cina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Giordania, Italia, Marocco, Qatar, Regno Unito, Russia, Spagna, Stati Uniti, Tunisia, Turchia. Adesso, c’è attesa per la firma dell’accordo di mercoledì 16 e per la risoluzione ONU di giovedì 17, data in cui i membri permanenti si sono impegnati a firmare un accordo per “un intervento umanitario, di sicurezza e di stabilizzazione della Libia”.

L’avanzata del Daesh, l’ascesa di Sirte come epicentro del Califfato e un complesso istituzionale alla deriva hanno imposto, forse fuori tempo massimo, l’intervento delle principali potenze mondiali e persino di quegli attori internazionali che in Libia si combattono per conto terzi: su tutti, Arabia Saudita e Egitto, Qatar e Turchia. E gli stessi rappresentanti delle fazioni libiche, compresi i leader del GNC e dell’Assemblea di Tobruk.

Roma, sulla scia di quanto avvenuto al summit di Vienna sulla Siria, ha seguito lo stesso metodo. Europa, Stati Uniti, Russia e Cina si sono mosse all’unisono in direzione di un piano d’azione che possa portare ad un processo di stabilizzazione istituzionale della Libia, indispensabile per combattere il Daesh.

Mentre la pressione per un immediato intervento militare da parte di Francia e Gran Bretagna, già alleate sul fronte siriano, non ha avuto un seguito, visti gli errori commessi nel 2011.

“Tra 40 ci sarà un governo di unità nazionale”. Anche se “ci vorrà tempo per superare il retaggio di quattro decenni di dittatura. Ma ora i libici devono governare insieme”, ha detto il sottosegretario di Stato USA John Kerry. Mentre il ministro degli Affari Esteri italiano Paolo Gentiloni ha affermato che “contro il terrorismo serve un Paese stabile”. Mentre, l’Italia avrà “un ruolo fondamentale nelle prossime settimane e mesi nel quadro delle decisioni ONU e sulla base delle richieste del nuovo governo libico”.

L’Italia, dunque, torna, seppure timidamente, protagonista nella scena internazionale, dopo che sul fronte siriano aveva adottato una linea attendista. Dopo oltre un anno di negoziati in Libia, il delegato ONU Martin Kobler, che ha ereditato da Bernardino Leon, si aspetta di strappare oltre 200 consensi dai rappresentanti dell’Assemblea di Tobruk, restii, a partire dal Presidente, a trattare sulla costituzione di un governo unico assieme agli attuali rappresentanti di Tripoli.

Rimane ancora da chiarire, tuttavia, la natura dell’intervento ONU in Libia dopo la costituzione del nuovo governo a Tripoli che, al netto dei no comment, sarà di natura prettamente militare e non una missione di peacekeeping, vista la radicalizzazione del Daesh sul territorio: “Ribadiamo il nostro pieno appoggio all’applicazione della Risoluzione 2213 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e delle altre Risoluzioni in materia per affrontare le minacce alla pace, sicurezza e stabilità della Libia. I responsabili della violenza e coloro che impediscono e minacciano la transizione democratica della Libia devono essere chiamati a rispondere delle loro azioni. Siamo pronti a sostenere l’attuazione dell’accordo politico e ribadiamo il nostro deciso impegno ad assicurare al Governo di Concordia Nazionale pieno appoggio politico e l’assistenza richiesta in campo tecnico, economico, di sicurezza e anti-terrorismo ”, recita ancora il comunicato.
Giacomo Pratali

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In China the pollution emergency continues

Asia @en di

The Paris summit Cop21 climate finished and delegates feverishly worked to find a final agreement that does not result in a mere declaration of intent. China was heavily involved in the debate, since it was suspended between the requirements of industrial development and the need to cut emissions and greenhouse gases, for the good of the planet and of its own citizens.

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China, despite some slowing, is still growing at a fast pace and feeds its industrial development with a high consumption of coal and other polluting fuels. December 2nd, at the Paris summit, Beijing has announced its plans to cut the main pollutant emissions over 4 years. By 2020 they will be cut by 60% and, at the same time, it should be a reduction, for industry, of 180 million tons of CO2 each year. It remains to understand what China means by “major pollutants” and if, among them, will be considered greenhouse gases.

Beyond the skepticism expressed by some, it seems that Beijing wants to redesign its growth model, reducing the use of coal and betting on forms of clean and renewable energy. The environmental issue is not only about the near future of the country. Even the present is heavily involved, because air pollution has reached alarming levels both in Beijing and in other major cities in China. Earlier this week, in the capital has been proclaimed the red alert, after that smog levels far in excess of the permitted range have been recorded, with harmful consequences for the health of citizens.

The emergency measures, which included the closure of schools and construction sites and a sharp reduction in private circulation, have proved effective, and the sun has returned to make its appearance in the skies long obscured of the megalopolis. The red alert now ceased, but the problem was just postponed. The warning pollution does not afflict only Beijing. In the big cities of northern China the authorities did not adopt measures whatsoever and tens of millions of people continue to breathe extremely toxic air, with values ​​of harmfulness even higher than those that led to the paralysis of the capital.

As reported by The New York Times, in Anyang, Henan Province, the air quality index showed a value of 999, three times higher than that registered in Beijing earlier this week. In the city of Handan, Hebei Province, it has been slightly better, with the indicator stopped at 822. For instance, a value of 300, the United States, is already considered dangerous to human health. Much of the pollution that grips Beijing is not produced from the drainpipes of cars, but comes from the north where, to meet industrial needs, are burned every day huge quantities of coal.

The central government and the provincial governments are therefore called upon to take prompt action to protect the health of their citizens, requiring the adoption of emergency procedures standardized in all regions of the country, involving also construction sites and factories. Once past the emergency, it will be necessaire to quickly understand how to balance the demands of industrial development which led China’s GDP to exceed the American one, with the imperatives of public health, in China and elsewhere. The commitments announced by the Chinese delegation to the climate conference in Paris seem a step in the right direction, but the claims will have to be followed by concrete action. In a very short time.

 

Luca Marchesini

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Armi occidentali e terrorismo jihadista

Varie di

Il quesito è aperto e si propone con urgenza quando il terrore colpisce nel cuore dei nostri paesi occidentali dove produzione e vendita dovrebbero essere regolamentate da ferree regole di controllo: il traffico internazionale illegale di armi.  Chi produce, chi vende, chi ne fruisce, chi perisce?

Un articolo de 2013 del New York Times rapportava uno schema allora consolidato di vendita di armi croate in Giordania, con un passaggio successivo in Siria e con i ribelli anti Assad come utilizzatori finali. Uno schema deliberato e acconsentito dalla stessa CIA, secondo il quotidiano statunitense. Cosa sono diventati gran parte di quei ribelli, lo sappiamo bene: esercito jihadista dell’autoproclamato Califfato.

Le lobby delle armi non conoscono crisi. Lungi da complesse tesi complotiste senza fondamenta investigative, un dato semplice e recentissimo ci da un segno da non trascurare: l’indomani della dichiarazione ufficiale di guerra contro il terrorismo jihadista da parte del Presidente della Repubblica francese, Hollande, le borse viaggiavano a gonfie vele. Fiducia cieca nell’intensificazione delle operazioni militari o cosa?

L’entrata della Russia nel conflitto indirizza ancora meglio la via delle armi. Uno studio internazionale del 2014, Conflict Armament Research, patrocinato dall’UE, illustrava come gran parte degli armamenti utilizzati nei conflitti in Medio Oriente sono di produzione USA, Russia e Cina. Armi che in caso di avanzata jihadista nei territori finiscono nelle mani dei terroristi. Per ora solo la Cina esporta ufficialmente armi ai regolari governi siriano e iracheno.

D’altra parte, una situazione estremamente complessa è quella del traffico illegale internazionale d’armi leggere. Facendo riferimendo all’ultimo rapporto Illicit Small Arms and Light Weapons elaborato dall’ European Parliamentary Research Service in collaborazione con le Nazioni Unite, si stimano in 875 milioni le armi leggere circolanti a livello mondiale ed appartenenti a privati cittadini.

Una delle vie più gettonate al traffico d’armi leggere è la rotta dei Balcani. Il dissolvimento delle ex Repubbliche jugoslave, la guerra in Bosnia, la crisi albanese del 1997, la guerra in Kosovo nel 1999, hanno facilitato il procuramento illecito da parte di privati o di bande criminali territoriali, dalle riserve degli eserciti governativi . Armi vendute in massa e di continuo alle grandi organizzazioni criminali e oggi anche ai jihadisti radicalizzati negli stessi paesi. V’è una produzione di alta qualità di armi nei Balcani, necessità degli anni della Guerra fredda. Calcolare oggi il numero esatto di armi in circolazione nel Sud Est europeo è difficilissimo. Nel 2012 si stimavano circa 4milioni di armi leggere illegalmente in mano ai privati, 80% delle quali provenienti dai conflitti degli anni ’90. Tuttavia, la continua produzione di armi prevista nei programmi di questi paesi non sono destinati al rafforzamento delle proprie forze armate, cosa che andrebbe a preoccupare seriamente l’UE viste le recenti adesioni di Croazia e Slovenia e delle prospettive future di stabilità nell’area, ma sono ufficialmente destinate all’export internazionale. Pertanto, aldilà di ogni proposito aconfittuale dei suddetti paesi, tali armi spesso finiscono in mani pericolose, com’è naturale che sia, potremmo ben dire. Nel 2013 armi provenienti dalla guerra bosniaca finirono nelle mani di Al-Qaeda vendute da scocietà serbe e montenegrine.

Quanto all’Italia, secondo ultimi rapporti stilati anche dalla Rete per il Disarmo, si stima che circa 28% delle armi italiane sono destinate in Nord Africa e in Medio Oriente a cavallo dell’exploit della crisi siriana. La L. 185/1990, che detta il Divieto di esportazione di armamenti verso quei Paesi in stato di conflitto armato, disciplina il traffico di armi definite “militari”: le armi staccate in pezzi, le munizioni e le armi in dotazione alle forze dell’ordine, che eludono qualsiasi controllo. Fuori da questa norma rimangono le armi leggere, che possono essere smontate e vendute al pezzo. Traffico che può essere effettuato trasportando armi smontabili con semplice bolla di accompagnamento.

Questo scenario sommerso e cruento continua a complicarsi e ad espandersi in più direzioni, anche prevedibili. Poche ore fa è stato bloccato un carico di 800 fucili al porto di Trieste proveniente dalla Turchia e destinato in Germania e forse, Belgio e Olanda.

Armi occidentali in mano ai jihadisti e poi Parigi. Colpita al petto per la seconda volta in 10 mesi, checché se ne dica, la ciptale francese scatena la nostra empatia europea e occidentale, naturale, immediata, senza filtri. Parigi forse ci chiede etica e coscienza; con ciclicità la Ville Lumiere, ogni tanto, ci chiede di illuminarci.
Lungi da ogni moralismo stagnante e retorica impoverita, un richiamo ai fatti: per “liberare” i paesi arabi dai loro carnefici, ne abbiamo sollecitato le primavere, lo abbiamo fatto con armi e denaro.

Voilà, cosa diavolo c’entrano armie denaro con la Primavera?!

“The Islamic State”: the book of AGC

Politics di

On December 12 the book “The Islamic state”, published by AGC Communications and written by various authors, will be presented in Rome. The book aims to clarify the dynamics of the threat endangering the West.

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The Islamic State represent the only real event of the third millennium, it can rely on well-trained and armed men with clear objectives: gas and oil pipelines, dams, power plants, commercial hub, fertile agricultural areas. Collecting taxes and popular support, it has a court and take instruction for the education of its citizens.

It attracts those who are searching the one Ummah, a community without borders or distinctions of race, offering job opportunities and even career chances. In this State where orphans, poor and elderly are very important, and leader takes a backseat to the Ummah. If Abu Bakr al-Baghdadi dies, he will be replaced by a successor elected by the Shura council in concert with the tribal leaders. It’s a complex socio-cultural system, which harmoniously blends traditional elements such as the observance of the Koran, the Sunnah, the principles of medieval texts, the modernity of social media, mass media and communication, information and disinformation, not neglecting a rich film production.

The Islamic State represents an effective combination of philosophy, technology and logic. The news agency AGC Communications works on open sources and monitors the foreign press, with specific reference to the Middle East, Central Asia and Caucasus. The book contains a warning to Western governments: if you send ground forces, and if they were captured, they will die in the same manner of the Syrian and Iraqis soldiers, of aid workers taken captive, as the gruesome executions filmed show us. In this war started by the Islamic State there is no place for war prisoners, the only purpose is bringing about “the promise of Allah”, the personal “Armageddon” of the third millennium Caliphate.

 

Viviana Passalacqua

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“Lo Stato Islamico”, la storia del Califfato Nero nel dossier di AGC Comunication

POLITICA di

“Lo Stato Islamico ” è un volume che nasce dall’esigenza di fare chiarezza sulle dinamiche della minaccia che incombe sull’occidente. Unica vera novità del terzo millennio, lo Stato Islamico può contare su uomini armati e ben addestrati con obiettivi chiari: gasdotti, oleodotti, dighe, centrali elettriche, hub commerciali, aree agricole fertili. Riscuote tasse e consenso popolare, è dotato di un tribunale e si dedica all’educazione dei suoi cittadini.

Attira quanti sono alla ricerca dell’unica Ummah, una comunità senza confini né distinzioni di razza, che offre opportunità di lavoro e persino di carriera. E’ uno Stato in cui c’è spazio per orfani, poveri e anziani, dove il leader passa in secondo piano rispetto alla Ummah. Se dovesse morire Abu Bakr al Baghdadi, sarebbe sostituito da un successore eletto dal consiglio della Shura, insieme ai capi tribù. Un impianto socio-culturale complesso, che miscela sapientemente elementi di tradizione quali l’osservanza del Corano, della Sunnah, dei testi medievali, alla modernità dei social media, della comunicazione massmediatica, di informazione e disinformazione, non trascurando una ricca produzione cinematografica.

Il connubio efficace tra filosofia, la tecnologia e logica. L’agenzia giornalistica AGC Communication lavora su fonti aperte e sul monitoraggio della stampa estera con riferimento specifico a Medio Oriente, Centro Asia e Caucaso. I l libro è un monito ai governi occidentali: se invieranno forze di terra, e se queste venissero catturate, faranno la fine dei militari siriani e iracheni, la fine dei cooperanti presi prigionieri, quella che ci viene mostrata dalle raccapriccianti esecuzioni filmate. In questa guerra iniziata dallo Stato Islamico non c’è posto per i prigionieri di guerra, l’unico scopo è quello di portare a compimento “la promessa di Allah”, la personale “Armageddon” del Califfato del III millennio.

In Cina continua l’emergenza inquinamento

Asia di

Il vertice Cop21 di Parigi sul clima volge al termine e i delegati lavorano febbrilmente per trovare un accordo conclusivo che non si risolva in una mera dichiarazione di intenti. La Cina è fortemente coinvolta nel dibattito, sospesa com’è tra le esigenze dello sviluppo industriale e la necessità di tagliare le emissioni ed i gas serra, per il bene del pianeta e dei suoi stessi cittadini.

La Cina, nonostante un certo rallentamento, cresce ancora a ritmo sostenuto ed alimenta il proprio sviluppo industriale con un elevatissimo consumo di carbone e di altri combustibili inquinanti. Lo scorso 2 dicembre, al vertice di Parigi, Pechino ha annunciato l’intenzione di ridurre drasticamente le principali emissioni inquinanti, nell’arco di 4 anni. Entro il 2020 dovranno essere tagliate del 60% e, nello stesso lasso di tempo, si prospetta una riduzione, a livello industriale, di 180 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno. Resta da capire cosa la Cina intenda per “principali sostanze inquinanti” e se, tra queste, verranno inseriti anche i gas serra. Al di là dello scetticismo manifestato da alcuni, sembra che Pechino voglia ridisegnare il suo modello si crescita, riducendo l’uso di carbone e puntando maggiormente su forme di energia pulita e rinnovabile.

La questione ambientale non riguarda solo il futuro prossimo del paese. Anche il presente è pesantemente coinvolto, perché l’inquinamento dell’aria ha già raggiunto livelli decisamente allarmanti sia a Pechino che nelle altre grandi città della Cina. Ad inizio settimana nella Capitale è scattato l’allarme rosso, dopo che si erano registrati livelli di smog di gran lunga superiori ai limiti consentiti, con ricadute nocive per la salute dei cittadini. Le misure di emergenza, che prevedevano la chiusura delle scuole e dei cantieri edili ed una netta riduzione della circolazione privata, si sono rivelati efficaci e il sole è tornato a fare la sua comparsa sui cieli a lungo oscurati della megalopoli. L’allarme rosso per ora è cessato, ma il problema è stato solo allontanato.

L’allerta inquinamento non riguarda la sola Pechino. Nelle grandi città della Cina settentrionale non sono state adottate misure di alcun tipo e decine di milioni di cittadini continuano a respirare aria estremamente tossica, con valori di nocività sono persino superiori a quelli che avevano portato alla paralisi della Capitale. Come riportato dal New York Times ad Anyang, nella provincia di Henan, l’indice di qualità dell’aria ha fatto segnare un valore di 999, tre volte più alto di quello registrato a Pechino ad inizio settimana. Nella città di Handan, nella provincia di Hebei, è andata leggermente meglio , con l’indicatore che si è fermato a 822. Per intenderci, un valore di 300, negli Stati Uniti, è già considerato pericoloso per la salute dell’uomo.

Buona parte dell’inquinamento che attanaglia Pechino non viene prodotto dai tubi di scarico delle auto, ma proviene dalle regioni del nord, dove per soddisfare il fabbisogno industriale vengono bruciati quotidianamente enormi quantitativi di carbone. Il governo centrale e le amministrazioni provinciali sono dunque chiamati ad intervenire tempestivamente per proteggere la salute dei loro cittadini, imponendo l’adozione di procedure di emergenza standardizzate, in tutte le regioni del paese, che coinvolgano anche i cantieri e le fabbriche.

Superata l’emergenza, si tratterà di capire rapidamente come conciliare le esigenze di uno sviluppo industriale che ha portato il PIL cinese a superare quello americano con gli imperativi della salute pubblica, in Cina e non solo. Gli impegni annunciati dalla delegazione cinese alla conferenza sul clima di Parigi sembrano un primo passo nella giusta direzione, ma ai proclami dovranno seguire azioni concrete. In tempi molto brevi.

Libia: dubbi sull’accordo preliminare

Medio oriente – Africa di

A quasi un mese dalla fine del mandato di Bernardino Leon, il GNC di Tripoli ha annunciato di avere trovato un accordo preliminare con Tobruk per la formazione di un governo di unità nazionale, al di fuori però della precedente bozza ONU. Essa prevede la creazione di un comitato di dieci rappresentati, divisi equamente tra i due esecutivi in carica, i quali eleggeranno il nuovo premier e i due vicepresidenti.

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Un accordo che, seppure fuori dalla bozza Onu dell’ottobre scorso, è stato salutato in maniera positiva dallo stesso Kobler e dall’Italia. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, pur frenando su un intervento militare in Libia nel breve termine, ha affermato che il proprio Paese “è pronto a fare la propria parte”.

A partire dalla prima conferenza internazionale sulla Libia, in programma il prossimo 13 dicembre a Roma. Un po’ come accaduto con il vertice di Vienna sulla Siria dopo gli attentati di Parigi e la reazione francese sul suolo siriano, l’Italia cerca di guadagnarsi un ruolo di primo piano in quest’altro contesto geopolitico caldo, avendo al suo fianco gli Stati Uniti, ma anche la Russia, la quale, attraverso il proprio ministro degli Esteri Lavrov, ha dichiarato che Mosca “è pronta ad aiutare l’Italia sulla Libia”.

Un modo, dunque, per rimettersi in gioco dopo l’attendismo dimostrato a seguito dei fatti di Parigi. In più, la notizia riportata da un’agenzia stampa iraniana, ancora non confermata, della presenza del califfo al Baghdadi a Sirte, roccaforte dell’Isis in Libia, pone il problema della presenza dell’organizzazione jihadista a 300 chilometri dalle coste italiane. Una risposta comune dall’Europa è ora quanto mai necessaria.
Giacomo Pratali

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Libano: continua l’attività di cooperazione della missione italiana

Difesa/Medio oriente – Africa di

Libano del sud, Una importante attività di cooperazione è stata svolta dal contingente italiano in Libano a favore dei comuni di Dair Ntar e Kafra nel Sud del Libano

I progetti implementati dalla Brigata Taurinense  hano permesso la realizzazione di nuovi impianti di illuminazione con lampade a Led a basso costo alimentate da pannelli fotovoltaici.

I lampioni illumineranno tratti stradali prossimi ai villaggi senza l’ausilio della rete elettrica, che nel sud del Libano funziona solo per poche ore al giorno, e garantiranno inoltre un maggior controllo dei villaggi e delle loro periferie durante le pattuglie notturne.

Durante le cerimonie di inaugurazione è stata evidente la soddisfazione e la gratitudine delle autorità locali che hanno ben accolto la collaborazione e l’impegno delle forze dell’UNIFIL.

Le attività di cooperazione con le istituzioni locali sono molto importanti perché permettono lo sviluppo delle cittadine e delle comunità nel rispetto dei compiti assegnati

ad UNIFIL dalla Risoluzione 1701 delle Nazioni Unite.

Libya: doubts about initial agreement

Middle East - Africa di

Almost a month after the end of Bernardino Leon’s role, GNC announced that it reached an initial agreement with Tobruk to lead a national unity government and elections. The draft, signed in Tunis on November 6, includes the creation of a committee of ten, equally shared between Tripoli and Tobruk, which will elect the new prime minister and two vice presidents.

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A deal which, although out of the UN draft of last October, was positively received by the UN envoy Martin Kobler and Italy. Indeed, Italian Foreign Minister Paolo Gentiloni said that his country “is ready to do its part.”

Since the first international conference on Libya in Rome on December 13, Italy will try to have a leading role in this crucial context, supported by the United States, but also by Russia, which, through its Foreign Minister Lavrov, said that Moscow “is ready to help Italy in Libya.”

As in Vienna after Paris attacks and raid on Raqqa, even this summit in Rome is very important. In addition to terror threat in Europe, an Iranian news agency reported that caliph al Baghdadi moved from Turkey to Libya last October. So, after French military reaction in Syria, now Italy and EU have to define what to do in Libya. Daesh is located almost 300 kilometres from Italian coast.
Giacomo Pratali

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UK, brits and Europe

Europe di

With alert arising across Europe, the United Kingdom is getting back to the debate about the European Union membership. The country seems to be perfectly divided. Recent polls show that more than half of voting people are supporting “Brexit” –UK exit from the EU-, while only 47% support the membership. Similarly, the political class is sharply divided: on one hand, the UK Independent Party (UKIP) is against the Union, while the Prime Minister is trying to negotiating better conditions for the country. Moreover, a referendum has been scheduled at the end of 2017, giving Brits the chance to express their position.

The UK has always had a particular position in Europe, close to the events ongoing in the mainland but far enough to be protected from them. From a political perspective, the UK belongs to the EU, though she doesn’t embrace all the aspects. Pound beat euro, while Schengen didn’t manage to cross the Channel. More than this. Despite the strong economic posture, London has failed in playing a leading role in the continent, as Germany or France have already tried (and managed) to do. However, the National Security Strategy highlights UK willing to play a distinctive role in the region and globally.

So, here is the question: what does Brits really want? 4 requests from Cameron. First, a multi-currency Union, in order to better protect the interests of those countries who are not in the Eurozone. Secondly, removing useless rules and limits that curb growth and competitiveness of the European market. Thirdly, strengthening sovereignty (for all national parliaments), allowing countries the right not to accept some reforms or policies (opt-out option). Finally, more control on immigration and benefits to foreigners only after 4 years in the country.

Understandable requests? We should analyse three core aspects that summarise what Europe represents for the UK.

  • The UK enjoys the benefits of a single market, based on free movement of goods, services and capital. This facilitates the export of British products at competitive prices, something that would be compromised, should the UK decide to exit the Union. In this fashion, the country would no longer be bounded by European legislation; however, some countries might find more convenient to do business with the “EU brothers”.
  • Despite defects and internal weaknesses, the EU represents-or at least should- “Europe’s voice”. Belonging to the EU ensures its members a platform where each country can express its point of view and protect national interests, while giving a voice to those in common. Leaving the EU could turn Great Britain in an outsider, thus losing contact with European reality but also the opportunity to take the leadership in the continent.
  • On one hand, a common defence policy that should guarantee more efficacy compared to members’ single actions. But there’s another side of the coin: though she didn’t agree to Schengen agreements, freedom of movement forces the UK to apply easier control mechanism for people travelling from EU countries (e.g. no visa needed). Since the end of the Balkan Wars, the abolition of internal borders has facilitated arms transport. Today, history repeats itself, but this time with free movement of terrorist cells, holding European passports and free to travel across countries bypassing any kind of controls. After Paris attacks, several EU members have been doubting this system.

So, what will the UK choose? There might be a shift towards isolationism, to find safety and economic stability outside the European bloc. Would it be enough to ensure the British Islands a safer future? Some doubts about it. Tensions and perils are already grounded in British society, EU or not. And undertaking a political, economic and social battle alone might be less simple than it sounds. On the other hand, we might see a different UK, which, stronger from the privileges obtained, will support a more strengthened Union and take the lead of a continent that seems to have lost orientation and compactness. Again, doubts. It looks more like Cameron is trying to stay with one foot in and one outside. “Yes, but…”, nothing new at Downing Street.

However, is it fair in an institution of 28 members to satisfy the interests of a single one as a key condition to remain in the Union? If London can benefits particular conditions, then Budapest, Madrid of Prague should have the same right. And where is the logic of a Union if each member participates only to the extent to which it most benefits?

 

Paola Fratantoni

Redazione
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