GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Monthly archive

Marzo 2015 - page 4

The realistic lesson about Ukrainian crisis

Europe di

Minsk negotiations on February 12th, welcomed by European and Us diplomacies as a necessary first step towards the solution to the crisis in Ukraine, have exposed the fragile agreement upon which the fate of future East-West relations should stand. The long line of “fault” that crosses Europe and divides Ukraine into two opposing fronts, Western and Ortodox, is very obvious because it keeps on claiming many victims and because all the history of the country speaks about discords and clashes. Following independence from the Soviet Union, a century-old complicated integration between Western culture and Slavic culture represented an insurmountable obstacle to forming a nation. Also Ukraine does not have a state anymore.

In the light of prospective for Ukraine and relations between US, EU and Russia, a correct interpretation of Minsk Protocol has to consider the nation failure and the present difficulties of the Ukrainian leadership to maintain the State integrity. Arising from an agreement already signed in September, the outcome of the lengthy negotiations consisted in temporarily limiting the violence and not eliminating it, as confirmed by the latest news from the eastern front of Donetsk and Mariupol. Despite the agreements that were supposed to lead to the cease-fire, the release of prisoners, the withdrawal of heavy weapons and all foreign troops and mercenaries from the Ukrainian soil, at this time the Osce, that according to the second part of the document should have supervised the withdrawal of heavy weapons with the support of the parties involved, has not yet had access to the airport of Donetsk area, controlled by pro-Russian separatists.

On a strategic level, the most significant gaps or ambiguities especially concern paragraphs 9 and 11 of the Protocol that talks about: “restoring the control of the Ukrainian government on the whole conflict zone”, “and the coming into effect, by the end of 2015, of a new constitution whose key element is decentralisation” and also “the approval of a permanent legislation on the future status of particular districts of Donetsk and Lugansk”.

At the moment, the full restoration of state borders by the Ukrainian government is at least uncertain: as is known, the deal is tactfully silent on the previous annexation of Crimea by Putin. West and Russia will have to reshape the new geopolitical Europe map starting from this silence. In front of the threat of democratic Ukraine pro-Eu and pro-Nato, Moscow has played an effective preventive action safeguarding its strategic interests in the area and maintaining control of the military bases located in the Black Sea. As Angelo Panebianco rightly pointed out on Il Corriere della Sera, the weak Western answer not only is dangerous in terms of stabilizing this field, but it may even facilitate all pro-Russian claims from Baltic States to Belarus.

A prior agreement between Brussels, Washington and Moscow on the strategic location of Ukraine will be essential for getting to territorial and political divisions of the country. If Ukraine were divided into two parts, pro-Western and pro-Russian both parts could go their own way, although this would represent a terrible defeat for Kiev. Therefore, it’s clear that the given hint for a federal solution in Minsk requires further efforts to be really practicable. Overlooking Crimea, what would Ukraine international position be? If it were really democratic, could it join Eu and Nato? Will it be able to manage its economic and energy dependence from Moscow?

These questions are essential to prevent to further alienate US and EU from Russia. Putin is still perceiving this separation considering constant warnings against the NATO enlargement and the Western support to Ukrainian democratic movements (e.g. The Orange Revolution). The 21st century paradox, referring to John Mearsheimer, is that the Western elite believes that the realistic logic can be replaced with the liberal principles of the rule of law, economic interdependence and democracy to bring freedom and security in Europe. However, the realistic logic does not necessarily imply the use of force. In reverse, it always needs a suitable balancing of interests and resources to avoid it. Just what has been missing so far.

Barbara Pisciotta is Associate Professor of Political Science at the Department of Political Sciences of Roma Tre University , where she teaches International Relations and International Politics. She wrote three books and numerous essays on the internal and international aspects of democratization of the Eastern Europe countries.

La lezione realista sulla crisi ucraina

EUROPA di

I negoziati di Minsk del 12 febbraio scorso, accolti dalla diplomazia europea e statunitense come un primo passo indispensabile verso l’auspicata soluzione della crisi ucraina, hanno messo a nudo il fragile accordo sul quale dovrebbero reggersi le sorti delle future relazioni est-ovest. Difficilmente la lunga linea di “faglia” che attraversa l’Europa e divide l’Ucraina in due fronti contrapposti, uno occidentale e uno ortodosso, avrebbe potuto essere più evidente. E non solo perché, ancora oggi, continua a grondare di sangue, ma perché è la storia stessa del paese a rimarcare le divisioni e i conflitti che lo hanno a lungo forgiato. Se da un lato secoli di difficile integrazione tra cultura occidentale e cultura slava hanno rappresentato, in seguito all’indipendenza dall’Unione Sovietica, un ostacolo insormontabile alla costruzione della nazione, dall’altro va rilevato come oggi, purtroppo, in Ucraina non esista più nemmeno lo Stato.

Per questi motivi, una corretta interpretazione degli accordi di Minsk, alla luce dei possibili scenari che si aprono per il paese e per i rapporti tra Usa, Ue e Russia, non può che passare per la constatazione del consumato fallimento della nazione e della attuale difficoltà della leadership ucraina a mantenere l’integrità dello Stato. L’esito del lungo e laborioso negoziato, che di fatto ha ripreso le coordinate generali dell’accordo già stilato a settembre, limitandosi ad entrare più in dettaglio su alcuni punti nevralgici, è stato quello di limitare temporaneamente la violenza e non di eliminarla, come confermano le ultime notizie dal fronte orientale di Donetsk e Mariupol. Nonostante gli accordi contemplassero almeno la fissazione del cessate-il-fuoco, la liberazione dei prigionieri, il ritiro delle armi pesanti e di tutte le truppe straniere e mercenarie dal suolo ucraino, allo stato attuale l’Osce, che secondo il punto 2 del documento avrebbe dovuto supervisionare con il sostegno delle parti interessate il processo di ritiro delle armi pesanti, non ha ancora avuto accesso alla zona dell’aeroporto di Donetsk, controllata dai separatisti filo-russi.

Sul piano strategico, le lacune, o se vogliamo le ambiguità più rilevanti, riguardano soprattutto i punti 9 e 11 dell’accordo, dove si parla rispettivamente di «ripristino del pieno controllo sui confini statali da parte del governo dell’Ucraina in tutta la zona del conflitto» e dell’entrata in vigore, entro il 2015, di «una nuova costituzione che abbia come elemento chiave una decentralizzazione», nonché l’approvazione di «una legislazione permanente sul futuro status di singole zone delle regioni di Donetsk e Lugansk».

Al momento, sul ripristino del pieno controllo dei confini statali da parte del governo ucraino è quanto mai lecito dubitare: come è noto, l’accordo tace diplomaticamente sulla pregressa annessione della Crimea da parte di Putin. Ed è proprio su questo silenzio che l’Occidente e la Russia, più o meno consapevolmente, dovranno ridisegnare la nuova mappa geopolitica dell’Europa. Mosca, infatti, ha per ora fornito un’efficace azione preventiva dinanzi allo spettro di un’Ucraina democratica e integrata nell’Ue e nella NATO, salvaguardando i propri interessi strategici nell’area e mantenendo il controllo delle basi militari dislocate sul Mar Nero. La fiacca risposta occidentale, come ha giustamente sottolineato Angelo Panebianco sulle pagine de Il Corriere della Sera, non solo ha aperto una crepa pericolosissima sulle prospettive di stabilizzazione dell’area, ma rischia addirittura di costituire il propellente ideale per tutte le rivendicazioni separatiste delle minoranze filo-russe dalla Bielorussia al Baltico.

Ne consegue che la ricostruzione del futuro assetto territoriale e politico dell’Ucraina non potrà assolutamente prescindere da un accordo preventivo tra Bruxelles, Washington e Mosca sulla collocazione strategica del paese. Se l’ipotesi di una divisione dell’Ucraina in due entità distinte, una filo-occidentale e una filo-russa, pur rappresentando una gravissima sconfitta per Kiev e i suoi alleati, potrebbe consentire ad entrambe le parti di seguire il proprio destino, è evidente che la soluzione federale, timidamente abbozzata a Minsk, necessiti di sforzi ulteriori per essere davvero praticabile. Anche chiudendo un occhio sulla Crimea e presupponendo, ottimisticamente, che si riesca a trovare un compromesso sullo status delle regioni orientali nell’ambito di un assetto federale, resta ancora da sciogliere il nodo dell’allineamento internazionale dell’Ucraina. Qualora dovesse eleggere democraticamente i propri rappresentanti, potrà entrare nell’Unione Europea e nella NATO? Sarà in grado di far fronte alla sua dipendenza economica ed energetica da Mosca?

Qualsiasi tentativo di eludere queste domande rischia di porre un altro mattone sul muro che già separa gli Stati Uniti e l’Europa dalla Russia. Il fatto che Putin continui a percepire questo muro come qualcosa di estremamente reale è confermato dai ripetuti avvertimenti lanciati contro l’allargamento della NATO e il sostegno occidentale ai movimenti democratici ucraini a partire dalla Rivoluzione arancione. Alla fine, la risposta russa è giunta. Il paradosso, se davvero può definirsi tale, sta nelle divisioni e nelle incertezze europee, nel discontinuo impegno americano, nella scarsa lungimiranza delle élites occidentali, le quali, parafrasando John Mearsheimer, nel XXI secolo ritengono di poter soppiantare la logica realista con i principi liberali dello stato di diritto, dell’interdipendenza economica e della democrazia per espandere la libertà e la sicurezza in Europa. Tuttavia, la logica realista non implica necessariamente il ricorso alla forza. Al contrario, presuppone sempre un’adeguata ponderazione degli interessi e delle risorse in campo per evitarla. Esattamente quello che, finora, è mancato.

 

Barbara Pisciotta è professore associato di Scienza politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre, dove insegna Relazioni internazionali e Politica internazionale. E’ autrice di tre volumi e numerosi saggi sugli aspetti interni e internazionali della democratizzazione dei paesi dell’Europa dell’Est.

Il petrolio che seduce i croati

Energia/EUROPA di

Il ministero dell’ambiente italiano ha aderito alla Valutazione ambientale strategica (VAS) transfrontaliera italo-croata sul piano del governo croato per lo sfruttamento di petrolio e gas nell’Adriatico settentrionale.

[subscriptionform]

[level-european-affairs]

“Essere pienamente a conoscenza di quel che si verifica a poca distanza dalle nostre coste, a maggior ragione perché si tratta di interventi energetici con un potenziale impatto ambientale, era per noi un passaggio irrinunciabile”, spiega il ministro Gian Luca Galletti. Che al tempo stesso ammette di aver agito anche “per rispondere a chi in questi mesi aveva temuto che l’Italia fosse semplice spettatrice di ciò che accade nell’Adriatico”. Un passo in avanti importante da parte delle autorità italiane per venire ufficialmente a conoscenza della strategia croata che coinvolge, di fatto, tutti i paesi confinanti bagnati dal mar Adriatico.

Ma da dove nasce l’ambizione del governo di Zagabria alle trivellazioni in cerca dell’oro nero davanti alle coste dalmate?

La recessione degli ultimi 6 anni e la nuova frontiera europea degli affari croati hanno spinto i suoi tecnici a considerare la Croazia in grado di divenire cruciale nelle politiche energetiche della regione. Ivan Vrdoljak, il ministro dell’Energia è il vero artefice della corsa al petrolio: trasformare la Croazia in una “piccola Norvegia” .

Il 2 aprile 2014 l’esecutivo socialdemocratico di Zoran Milanović pubblicava il suo primo bando di esplorazione offshore. Le acque territoriali croate venivano allora divise in 29 blocchi da 1000–1600 km2, quindici dei quali venivano proposti in concessione. La gara si chiudeva nel novembre del 2014 e i risultati venivano annunciati al gennaio del anno in corso. Il 2 gennaio, il governo informava che cinque colossi dell’energia si fossero aggiudicati 10 settori. Si tratta di Marathon Oil, OMV, INA, Medoilgas ed ENI, che potranno esplorare le acque croate nell’Adriatico centrale e meridionale, esattamente di fronte alle isole Incoronate e al largo di Dubrovnik. Il ministro dichiarava che l’ammontare degli investimenti è di circa 523 milioni di euro. L’accordo si prevede possa essere raggiunto e siglato entro il 2 aprile prossimo e l’intera fase delle esplorazioni si aspetta possa durare ben 5 anni.

Contrari al progetto, oltre alle associazioni ambientaliste dell’intera area del Mediterraneo, pare si sia messa anche l’opposizione di stampo conservatore all’attuale governo. Si accusa il progetto di mancata trasparenza e lo si considera potenzialmente dannoso per l’economia del turismo croata, vero traino degli affari croati. Più di 1000 isole che attraggono circa 12 milioni di turisti all’anno sono i numeri ai quali si fa riferimento per mettere dei paletti alle trivellazioni nell’Adriatico.

E poi c’è l’UE. Entro il 2020, la Croazia, facendo riferimento alla direttiva europea sull’efficienza energetica, dovrebbe rinnovare e riadattare (in termini di adeguamento al risparmio energetico) il 20% degli edifici di proprietà statale, con una progressione che prevede il raggiungimento di almeno il 6% entro il primo gennaio 2016. Un obiettivo che, senza un approccio serio, al momento attuale sembra fuori portata.
Ma l’impegno sull’efficienza energetica delle strutture è improrogabile e ha per riferimento il pacchetto legislativo “clima-energia” che la Commissione europea ha assegnato a tutti gli stati membri e che, attraverso la formula 20-20-20, punta al raggiungimento di un traguardo non poco ambizioso: un risparmio energetico del 20%, una riduzione dei gas serra (causa primaria del riscaldamento globale) del 20%, rispetto ai valori del 1990, e un aumento del 20% dell’energia elettrica proveniente da risorse rinnovabili (che probabilmente salirà al 30% entro il 2030 in base alle ultime proposte della Commissione europea).
Ma come farà la Croazia a raggiungere i target se attualmente la percentuale di produzione di energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili ha raggiunto solo il 5% della produzione totale? E la corsa al petrolio come meta finale e “soluzione” dei problemi croati, stando a sentire il futuro florido fantasticato dal suo ministro dell’economia?

In questa prospettiva, il governo di Zagabria deve ufficializzare le sue priorità in conformità con gli impegni europei.
Secondo la mappa diffusa dal ministero e riprodotta più volte nelle 450 pagine del suo studio di impatto ambientale, i 29 settori interessati dall’attività petrolifera rasentano tutti i parchi naturali e nazionali della costa croata: l’arcipelago delle Brioni al largo dell’Istria, il Parco naturale di Porto Taier (Telašćica), le celebri Incoronate (Kornati), l’isola di Lagosta (Lastovo) e, appunto, il parco di Mljet.

Sono circa un milione gli italiani che scelgono le coste croate nei mesi estivi. Il sito di petizioni “avaaz.it” ha deciso di rivolgersi proprio a loro per fermare l’azione del governo croato. “Se riusciamo a raccogliere 150.000 firme, potremo fare pressione sul governo di Zagabria”, riassume Francesco Benetti, attivista presso Avaaz.it. Oltre alla versione in croato della petizione, l’azione andrà a espandersi in circuiti europei. “I nostri colleghi tedeschi stanno pensando di pubblicare una petizione identica”, aggiunge Benetti.
Ora, il governo italiano, facendo seguito non solo alle istanze dal basso per la tutela ambientale, ma anche alla partecipazione italianissima di ENI e MEDIOLGAS nel progetto, può finalmente accedere agli atti e prendere posizione. Ci si augura che ciò possa avvenire in tempi utili, ovvero entro la scadenza del 2 aprile prossimo e che sia la migliore delle decisioni.

 

[/level-european-affairs]

Libya and Mali: Jihadism challenges European and International paralysis

Middle East - Africa di

Jihadist threat is coming from even the south, not only the east. Libya and Mali have been protagonist two raid by Isis and Al Qaeda.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
An attack on the Al Ghani oil field, south of Sirte, now controlled by the Islamic State, has resulted in the killing of 11 guards, including 8 beheaded, in early March. The action took place near the site where the execution of the 21 Egyptian Copts happened. At least five oil deposits from Tripoli to the borders with Cyrenaica are targeted by rebels. But the institutional and political chaos are going on Libya because of contrast between Tobruk (recognize by majority of International Community) and Tripoli (protected by Turkey and Qatar) governments.

An instability which reigned in the neighbour Mali. About 40 rockets have hit the Un camp of ‘Minusma’ in the Kidal region (north-east) on Saturday 7th March. They’ve originated at least 3 killed, including a soldier of the International mission. The raid is due to revolutionary groups influenced by Al Qaeda.

The political and institutional situation is very critical in this country since two years. United Nations and France are helping the government to stop jihadist movements in the north-east of the country. Cruel actions happen every week. Like 5 people killed in a resturant of capital city Bamako.

The Italian Prime Minister Matteo Renzi applied on help to international community and to Russian President Vladimir Putin in the last week. This because of Un must find a fast solution to solve Libyan chaos. After the mistake made in 2011, it wishes for a diplomatic solution. However the peace talks between Tobruk and Tripoli governments are basic, despite the pressures of Egypt on one side, and Turkey and Qatar on the other hand.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Libia e Mali: il jihadismo sfida l’immobilismo europeo e internazionale

Medio oriente – Africa di

Non solo da est. La minaccia jihadista incombe anche dal sud. Dall’Africa. Nel secondo weekend di marzo, Libia e Mali sono stati gli epicentri di due efferate azioni. Una di matrice Isis, l’altra firmata Al Qaeda.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Un attacco contro il campo petrolifero di Al Ghani, a sud di Sirte, ormai controllato dallo Stato Islamico, ha provocato l’uccisione di 11 guardie, di cui 8 decapitate, ad inizio marzo. L’azione è avvenuta vicino al luogo in cui è avvenuta l’esecuzione dei 21 egiziani copti. E almeno cinque sono gli impianti di produzione del greggio, da Tripoli fino ai confini con la Cirenaica, presi di mira dai ribelli. Il tutto mentre nella Libia continua il caos politico, con il governo di Tobruk riconosciuto dall’Occidente e dalla maggior parte della comunità internazionale, contrapposto all’esecutivo dislocato nella capitale, protetto da Turchia e Qatar.

Un caos che regna anche nel vicino Mali. Sabato 7 marzo, circa 40 razzi hanno colpito il campo Onu di ‘Minusma’ nella regione di Kidal (nord est): le fonti parlano di almeno 3 morti, di cui un militare della missione internazionale. Il raid è riconducibile ai gruppi rivoluzionari che fanno capo ad Al Qaeda.

Da almeno due anni, la situazione politico-istituzionale in questo Paese è assai critica. Le Nazioni Unite, in special modo la Francia, sono presenti per aiutare il governo ad arginare le spinte jihadiste che provengono dai movimenti dislocati per lo più nel nord est dello Stato africano. Le azioni violente, infatti, sono all’ordine del giorno. Come l’uccisione di 5 persone in un ristorante della capitale Bamako avvenuta anch’essa nel secondo weekend di marzo.

La richiesta di aiuto lanciata dal premier italiano Renzi alla comunità internazionale e il recente colloquio avuto con il presidente russo Putin fanno capire come non solo l’Italia, ma l’Europa e l’Occidente debbano trovare un’intesa rapida per districare innanzitutto la matassa libica. L’Onu, per non ripetere l’errore commesso nel 2011, auspica una soluzione diplomatica e non militare. Ma i colloqui in corso tra il governo di Tobruk e quello di Tripoli devono subire un’accelerazione, al netto delle pressioni di Egitto da una parte e Turchia e Qatar dall’altra.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

South Sudan: failure of peace talks after 14 months’ civil war

Middle East - Africa di

President Kiir and rebels commander Machar haven’t found an agreement. Regular army and insurgents are carrying on fight to oil control. Meanwhile the Ethiopian government has lost his patience.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
South Sudan army and fighters have collided in South Sudan on Saturday a day after warring factions missing and failure of peace talks. Ethiopia agreement, between Presidente Salva Kiir and rebels commander (ex Vice President) Riek Machar, should have ended the civil war on late January. Nevertheless they’re carrying on struggle since 14 months

Regular troops and insurgents have fighted in Bahr al-Ghazal and Upper Nile States on 7th March, said Wsj. While they’ve crashed in Unity State on 11st February. All these regions are crucial cause are oil-rich.

Ethiopian government, the peace arbitrator between two factions, has called “unacceptable” failure of the parties to reach agreement by the moral and political points of views. And charged with Kiir and Machar for South Sudan population’s treason. It is not still known when tranquility talks will reclaim.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Sud Sudan: stop ai colloqui di pace dopo 14 mesi di guerra civile

Medio oriente – Africa di

Il presidente Kiir e il capo dei ribelli Machar non hanno trovato un’intesa. L’esercito regolare e le truppe rivoluzionarie stanno combattendo per il controllo del petrolio. Nel frattempo il governo etiope ha perso la pazienza.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Le truppe del Sud Sudan e i ribelli hanno ripreso a combattere nella giornata di sabato, il giorno dopo il fallimento dei negoziati tra le fazioni del Paese e dei colloqui di pace. Gli accordi in Etiopia tra il presidente Salva Kiir e il comandante delle truppe eversive Riek Machar avrebbero dovuto porre fine alla guerra civile a fine gennaio. Ma ciò nonostante gli scontri continuano ad insanguinare lo Stato africano.

L’esercito regolare e le forze ribelli hanno combattuto il 7 marzo negli Stati di Bahr al-Ghazal e dell’Alto Nilo, come ha riportato il Wall Street Journal. Mentre si sono scontrati nello Stato di Unità l’11 febbraio. Queste regioni sono contraddistinte, infatti, da un’elevata ricchezza di petrolio, motivo principale della lotta fratricidia che sta imperversando nel Sud Sudan da oltre un anno.

Il governo etiope, il mediatore di pace tra le due fazioni in guerra, ha definito “inaccettabile” dal punto di vista morale e politico non essere riusciti ad arrivare ad un accordo tra le parti. E ha accusato Kiir e Machar di tradimento verso il popolo sud sudanese. Ancora non si sa quando riprenderanno i negoziati.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Pacchetto antiterrorismo, ecco cosa cambia

Difesa/POLITICA di

Max Weber sosteneva la pericolosità di un ordinamento giuridico che non accompagni l’evoluzione della società, nella costruzione di un dettato giurisprudenziale che la protegga e funga da binario per la sua crescita. Non si può dire che questo oggi sia la prassi, soprattutto con una minaccia come quella del terrorismo, ma si prefigura un percorso in cui sarà la minaccia stessa a determinare la normativa che si andrà sviluppando. Così come avvenuto in seguito all’attentato alle Twin Towers nel 2001, siamo ancora una volta a rincorrere le intimidazioni attraverso provvedimenti urgenti e probabilmente questa diverrà la fisionomia del diritto nel contrasto al terrorismo.

[subscriptionform]

[level-european-affairs]

Il pacchetto contenuto nel Decreto Legge del 15 febbraio scorso recante “Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale nonchè proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo” fa seguito alle affermazioni del Ministro Alfano sulla necessità di <rafforzare la strumentazione normativa>. Provvedimento sicuramente necessario, si spera integrabile con le normative degli altri Paesi, il Decreto accenna brevemente al tema scottante del finanziamento delle operazioni terroristiche (reato questo introdotto ex novo riguardo ai foreign fighters). Il reato, significativamente, viene menzionato proprio nelle prime righe, data l’inevitabilità del collegamento tra i nuovi reati e quelle fattispecie tipiche quali corruzione, riciclaggio di denaro, precedenti indispensabili per il verificarsi delle condotte criminose disposte dalla normativa. Tanto più che, secondo quanto dichiarato dallo stesso ministro Alfano il provvedimento si inserirà in un progetto teso ad aumentare la sicurezza dei cittadini e la lotta al contrabbando ed alla contraffazione. Al momento risulta quantomeno prematuro avventurarsi in previsioni di questo genere, data la situazione critica in cui versano forze armate e di polizia a causa dei tagli al bilancio, alle assunzioni, scarsa operatività e disagi.

La decisione di limitare a pochi casi l’elenco dei reati presenti nel pacchetto è da ricondursi oltre che al carattere di urgenza del provvedimento anche alla necessità di una interpretazione sistematica in armonia con i provvedimenti precedenti che costituiscono la normativa antiterrorismo. La giurisprudenza italiana in materia infatti può essere fatta risalire alla Legge n. 431/01 in cui vi sono disposizioni tese a sanzionare chi non rispetta il divieto di effettuare transazioni che abbiano per oggetto beni, attività finanziarie o servizi riconducibili ad attività terroristiche, alla Legge n. 415/01 che riguarda transazioni anche di tecnologie dual use. La situazione italiana risulta infatti peculiare all’interno del sistema internazionale. La normativa nostrana, storicamente incentrata sul terrorismo e le organizzazioni criminali interne, ha sviluppato un dettato giurisprudenziale tra i più evoluti in termini di salvaguardia delle parti, controllo del patrimonio (si pensi infatti all’importantissimo istituto della confisca), giustizia del processo, misure di prevenzione ecc. Ha quindi dovuto riadattare la normativa interna alla dimensione internazionale, risultando a volte lenta anche a causa della mancata integrazione e del mancato coordinamento con gli altri Paesi. A questo mirava la Legge n. 438/01.

downloadfile

Il pacchetto antiterrorismo nato dagli uffici di Interno e Giustizia prevede pene specifiche per nuove tipologie di reati in linea con le condotte dei nuovi agenti del terrore. La lettura che daremo del documento non segue il dettato così come pronunciato dal legislatore ma prosegue attraverso una suddivisione in sezioni in modo che la comprensione possa risultare più semplice e che possa fornire un quadro delle misure introdotte riguardo ai soggetti, agli strumenti, ai metodi.

Possiamo suddividere il Decreto, nella parte dedicata a combattere il terrorismo, in tre aree. Nella prima vengono aggiunte alcune fattispecie per punire l’insorgere di nuovi reati legati alla transnazionalità della minaccia. Nella seconda si provvede ad arricchire il dettato riguardo agli strumenti di prevenzione, di punibilità, di limitazione della libertà personale e nella terza vi sono aggiornamenti importanti su alcuni contorni tecnico-operativi in grado di incidere significativamente sul pacchetto in toto.

Sulla scorta delle ultime esperienze, tra cui indubbiamente quella dei letali foreign fighters, vengono introdotte le fattispecie nuove dell’organizzazione, del finanziamento e della propaganda di viaggi esteri con fini terroristici (la pena prevista va dai tre ai sei anni) e la punibilità del soggetto reclutato anche per fini diversi da quelli terroristici: “(…) chi organizza, finanzia e propaganda viaggi per commettere condotte terroristiche (…)”. La normativa quindi viene arricchita anche dalla previsione della punibilità per colui che si auto-addestra oltre che per chi viola gli obblighi sul controllo di sostanze di uso comune che possono essere usate per fabbricare ordigni. Sebbene nel documento venga riportato in una sezione a parte, per comodità di esposizione sembra corretto affiancare a queste nuove fattispecie anche l’aggravamento delle pene previste per apologia ed istigazione al terrorismo.

Riguardo la cornice di azione preventiva degli enti di pubblica sicurezza e della magistratura, il pacchetto inserisce una serie di operazioni a tutela della sicurezza pubblica da applicare al soggetto interessato. Viene prevista la sorveglianza speciale per i potenziali foreign fighters e, al momento della proposta di applicazione di detto strumento viene data al Questore la facoltà di ritirare il passaporto ai soggetti sospettati di terrorismo. In caso di ritiro del passaporto e successiva violazione degli obblighi derivanti dalla nuova situazione giuridica e per il soggetto e per coloro i quali devono garantire l’applicazione delle misure preposte, viene introdotto un reato apposito per contravvenzione agli obblighi suddetti. L’autorità giudiziaria a seguito dell’aggravamento delle pene per gli atti di proselitismo ed in affiancamento alle restrizioni sul web per gli stessi fini, può ordinare ai provider di internet di impedire l’accesso per i fini indicati a determinati soggetti.

Sono presenti, inoltre, la proroga per l'”Operazione strade sicure” fino alla fine di giugno 2015, la semplificazione delle condizioni cui gli operatori della sicurezza devono attenersi per il trattamento dei dati personali (nel rispetto del Codice sulla privacy) e, dulcis in fundo, un ampliamento delle garanzie previste per gli operatori appartenenti ai Servizi di informazione per la sicurezza. L’attenzione prestata al “comparto” fornisce ulteriore prova della sensibilità dell’intervento giuridico in esame che, coerentemente alla necessità di combattere una o più nuove minacce, si pone legittimi interrogativi relativamente alle modalità d’impiego sul campo. Le garanzie funzionali verranno estese ad una serie di condotte nel contrasto al terrorismo (ad esclusione dei reati di attentato o sequestro di persona) qualora essi agiranno sotto autorizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per finalità istituzionali. Il personale delle Agenzie avrà inoltre la possibilità di “(…) effettuare, fino al 31 gennaio 2016, colloqui con soggetti detenuti o internati, al fine di acquisire informazioni per la prevenzione di delitti con finalità terroristica di matrice internazionale”. Infine, la Procura Nazionale Antimafia avrà compiti di coordinamento delle indagini penali e i procedimenti di prevenzione che riguardino il terrorismo.

[/level-european-affairs]

Nato, the Annual Cmx on the Libyan and Ukrainian backgrounds

Defence di

North Atlantic Council announced the Annual Crisis Management Exercise. The test will involve civilian and military staffs and will concern maritime security. Allies and other States will partecipate in drill.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Annual Crisis Management Exercise (Cmx15) will happen from 4th to 10th March 2015. Ambassadors on the North Atlantic Council (Nac) made this decision imagining a crisis between two non-Nato state at distance from Alliance territory. Test will occur in a ficticious scenario e will involve “civilian and military staffs in Allied capitals, at Nato headquarters and in both Operations and Transformation Strategic Commands. It contains a humanitarian and maritime dimension, with implications for the security of the Allies”, said North Atlantic public notice.

Allies rather than Australia, Finland, Japan, Sweden and Ukraine will take part in drill, while Georgia, New Zealand and South Korea will observe the exercise. The Eu and Un will exchange informations during the test.

This is the 19th Cmx since 1992. The maritime security could be related to Libyan crisis, especially after Stoltenberg’s reassumance to Italian Prime Minister Renzi to support Italy. Whereas the humanitarian aspect could be reffered to escalation of violence in Ukraine, where is growing a new hot “Cold War” between Usa and Russia.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Nato, Cmx15: occhi puntati su Libia e Ucraina

Difesa di

Il Consiglio del Nord Atlantico ha annunciato l’annuale Cmx dal 4 al 10 marzo. Il test vedrà coinvolti personale civile e militare e sarà incentrato sulla sicurezza marittima. Gli alleati e altri Stati prenderanno parte all’esercitazione.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Il Cmx 15 si terrà dal 4 al 10 marzo 2015. A prendere la decisione è stato il Consiglio del Nord Atlantico, il quale ha immaginato un contesto di crisi tra due Stati non appartenenti alla Nato ad una distanza ravvicinata rispetto al territorio facente parte dell’Alleanza Atlantica. Il test si svolgerà in uno scenario fittizio e vedrà coinvolti “personale civile e militare nelle capitali degli Stati membri, nei quartier generali della Nato e in entrambi i casi verrà impiegato il Comando Strategico Alleato per la Trasformazione. L’esercitazione sarà focalizzata su aspetti umanitari e marittimi, con implicazione per la sicurezza degli Alleati”, riporta la nota pubblicata dalla Nato.

Gli Stati membri piuttosto che Australia, Finlandia, Giappone, Svezia e Ucraina prenderanno parte al test, mentre Georgia, Nuova Zelanda e Corea del Sud saranno osservatori esterni. Unione Europea e Onu si scambieranno le valutazioni nel corso dell’esercitazione.

Si tratta del 19° Cmx dal 1992. Il riferimento alla sicurezza marittima, dopo le rassicurazioni di Stoltenberg al premier italiano Renzi, potrebbe essere riferito alla crisi libica. Mentre l’aspetto umanitario dell’esercitazione potrebbe essere riconducibile soprattutto alla escalation di violenza di cui è protagonista l’Ucraina, dove sta prendendo campo una nuova calda “Guerra Fredda” tra Stati Uniti e Russia.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Giacomo Pratali
0 £0.00
Vai a Inizio
×