GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Monthly archive

Febbraio 2015 - page 4

Nigeria, morti 200 miliziani di Boko Haram. Ma il Paese resta nel caos

Medio oriente – Africa di

La controffensiva dell’esercito del Ciad contro Boko Haram, iniziata a gennaio in Camerun e proseguita ora in Nigeria, sta mettendo l’organizzazione di Abubakar Shekauin difficoltà.L’esercito regolare di Lagos sembra incapace di proteggere la popolazione.E, intanto, un silenzioso Goodluck si avvia verso il secondo mandato

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
200 miliziani di Boko Haram sono stati uccisi in Nigeria dall’esercito del Ciad il 3 febbraio. Questo blitz segue quello del 31 gennaio in Camerun, quando le forze speciali di N’Djamena hanno ucciso altri 123 guerriglieri islamisti. Azioni che hanno ottenuto il benestare del segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, favorevole alla formazione di una forza militare di 7500 unità che, sotto l’egida dell’Unione Africana, combatta l’avanzata del Califfato di Abubakar Shekau.

Saccheggio e distruzione di villaggi, uccisioni di massa: sono la costante di una linea, quella di Boko Haram, che punta a stabilizzarsi in modo definitivo presso lo Stato di Borno (nord della Nigeria), nonostante la mancata conquista della capitale Maiduguri, espandendo i confini del Califfato a Camerun, Ciad e Niger.

La strategia seguita dal Shekau da agosto ad oggi punta a seguire per filo e per segno lo Stato Islamico proclamato in Iraq e Siria da al Baghdadi. L’affiliazione del Califfato all’Isis, la creazione di un’entità parastatale, l’utilizzo della medesima bandiera, la lettura del Corano in una moschea da parte del leader, i prigionieri vestiti di arancione. Sono questi alcuni dei segni più riconoscibili di un avvicinamento ai finanziamenti stanziati dall’organizzazione sunnita a chi si arruola per espandere le proprie insegne in tutto il mondo arabo.

Ma perché Boko Haram ha scelto lo Stato di Borno? Perchè stiamo parlando della parte settentrionale della Nigeria, ovvero la più povera ed arretrata, a differenza del sud sviluppato, coperto economicamente dallo sfruttamento delle risorse petrolifero, ma pervaso anche ad una corruzione endemica. Un nord dove, già prima dell’agosto 2014, era in vigore la sharia e, quindi, più penetrabile. E non protetto da un esercito che appare, al contrario di quello del Ciad, impreparato a difendere la propria popolazione.

Come contraltare, abbiamo di fronte l’assordante silenzio dell’intera classe politica nigeriana, a cominciare dal presidente uscente Jonathan Goodluck. Non solo, il crescente clima di terrore provocato da Boko Haram sembra spingere il Capo dello Stato ad un’imminente rielezione nelle presidenziali del 14 febbraio. Ma se così avvenisse, si aprirebbe un precedente nuovo per Lagos: un secondo mandato consecutivo di ispirazione cristiana in contrasto con l’altra fede religiosa del Paese, l’Islam.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

La caduta del Califfato a Kobane, la città liberata dai curdi

Ben 4 mesi di combattimenti senza tregua e i peshmerga siriani sono riusciti a liberare Kobane da terroristi dell’ISIS. Era dal 16 settembre  scorso che la città resisteva all’assedio dei jihadisti sunniti. Lo ha riferito il 27 gennaio scorso l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, il quale ha precisato che i resistenti curdi ormai hanno liberato quasi l’intera area della città curda di Kobane ai confini con la Turchia.

Proprio nel Kurdistan turco numerose sono state le  manifestazioni di festa alla diffusione della notizia. In migliaia hanno riempito le piazze con canti e balli, in uno spirito di grande appartenenza alla causa della lotta allo Stato Islamico e alla resistenza eroica dei combattenti peshmerga.

[subscriptionform]

[level-european-affairs]

Alcune conseguenze sono già tangibili in seguito alla liberazione di Kobane. In primo luogo, la grande attenzione mediatica che giustamente si è guadagnato l’intero popolo curdo tramite i suoi combattenti nelle fila della Resistenza. Un umore gelido soffia da Ankara e gli eventi  non smuovono affatto il suo leader. Erdogan lo ha dichiarato senza mandarle a dire, “non c’è nulla da festeggiare!”.

La prospettiva del Grande Kurdistan, il tanto agognato stato curdo che s’andrebbe a estendere tra Turchia, Siria, Irak e Iran rimane improponibile per Erdogan. “chi costruirà adesso le città distrutte?” ha domandato sarcastico riferendosi ai bombardamenti delle truppe americane che hanno aiutato i combattenti curdi sul territorio. Kobane è una città che conta circa 45mila abitanti.Eppure, gli strike americani hanno colpito più duro qui che a Raqqa, dove si ritiene che abbia passato molto tempo anche lo stesso capo di IS, Abu Bakr Al Baghdadi.In molte giornate di bombardamenti, Kobane è stato addirittura l’unico bersaglio degli aerei della coalizione.

D’altronde, il contributo turco alla lotta è stato unicamente quello di far passare i peshmerga curdi lasciando il confine aperto a seguito delle pressioni inderogabili della comunità internazionale. Erdogan sogna la caduta di Bashar Al Assad in Siria per espandere la sua influenza con un governo filoislamico che bloccherebbe ogni possibilità ai curdi di costituirsi a Stato. Fa pensare la notizia confermata dall’intelligence turca che parla di numerose cellule jihadiste “dormienti” in Turchia. Fanno pensare anche i movimenti quasi indisturbati di profughi siriani che dai confini turchi, attraversano il paese senza quasi venire intercettati giungendo numerosi nei Balcani.

Eppure, forse la considerazione più pregnante da portare sul tavolo della strategia nella lotta al Califfato sta in quella locuzione inglese del “boots on the ground” perché è esattamente quello che hanno fatto i peshmerga siriani del YPG (Foze di Difesa del Popolo): combattere per una porta, un vicolo, una piazza, una città. La resistenza dei curdi, non finisce a Kobane.

[/level-european-affairs]

Risk and Climate change

Defence/Policy di

Climate change is becoming a daily topic of discussion. What is notable is the importance that it has acquired in political debates and academic talks. First of all, is not a new that climate is changing. The new is how fast it is happening and, due to interconnections and interactions between societies and economies, how it is affecting entire regions, how its implications are spreading throughout the planet. What makes it so dangerous is the proportion of changes in time. We live in an incredible age of prosperity, opportunities and global growth that, despite the economic and financial crisis is with no doubts the biggest ever (in terms of quality, quantity, distribution, technology and assets). All this – that is as well bad connected and distributed – is a sign of how much every aspect of our live is dependent from another in terms of space and time.

Studies affirm that in the last thirty years global warming rose much more, in comparison, than in the last 1400 years and in this period the biggest impact of pollution on temperature has been detected in the last 30 years. Researchers agree in defining climate change as a threats multiplier, an accelerant of instability and, most important, an influential ingredient able to exacerbate tension and make conflicts more likely. By acting directly on human essentials needs, it poses new concerns due to his intrinsic ability to stress society, economy, security and infrastructures.

We can divide the risks in two categories. A first risk is the direct one, meaning with this the classic and unfortunately continuous phenomenon like storms, extreme rainfalls, droughts, hurricanes, that have a direct impact on cities for example, causing direct damages to infrastructures. The other one is the indirect risk, the secondary one, or the so called collateral damage we may say. Not for this less dangerous than the first one. This type of risk is a dangerous and worrying one because of one main reason:  the more we rely upon technology, infrastructures and services of different nature to satisfy our needs, the more we have to be concerned of those threats that are able to undermine our security and protect assets and infrastructures. The reason why this two risks can be considered different and at the same time interconnected and dependent one from another is because of the interconnections between economies: society is now a vital asset itself. The interconnection in trade, transport of goods, people, informations as well as the financial system is the key element of our century and will be greater and greater in the next future. This considered, we can assume that a risk can spread its effects out its physical borders, being not more confined to national boundaries or local interest. Given that this has surely dangerous impacts, the point we all have to agree upon is on how much risk we decide to take; considering the inevitability of climate effects on the environment and societies and the absence of a zero risk policy we shall act differently in short time, medium time and long time by taking  necessary measures on the ground of what estimates say and how we want our future planet and lives to look like in the next future. This policies cannot be pushed back to a “to be defined” date.

The wisest decision is the one that is focused on cooperation and, of course, taking in consideration that there are changes that cannot be stopped, other can be measures and therefore faced with policies of sustainability, territory development and enhancement should be a priority. What is sure is that we shall respond to this changes, military shall and politicians too. One of the consequence experts consider to be likely is the increasing role of the army in society. What we are going to face (not to be pessimistic) is an increase of instability around the world both national and international that had to be summed with changes in society needs, economic crisis (or fluctuation), spread of globalization etc. In a world so interconnected, in which distant regions are influenced by different changes in politics, environmental disasters, economic stresses and conflicts, respond by taking a conservative policy is far from being the correct solution. Experts think that policies to mitigate or face this threats can still be set up. Build resilience measure is an important action against such change, also because it helps build cooperation between countries. In his study Mabey sustains that a large scale adaptation measure is needed even with aggressive measures, because climate has its own recovery time. Other studies affirm that even with the most aggressive mitigation measures and the stop of air pollution our planet will take decades to recovery. A scenario that is not exactly so reassuring. Mabey continues saying that some mitigation policies shall be considered as temperature rises and explains that mitigation scenarios diverges radically with different lower emissions policies. He continues affirming that a risk mitigation scenario should be considered for a rising in temperature of two degrees and, for every level he suggests defensive adaptation policies and mitigation. There is an interesting connection that this data shows between climate policies and government failure that has a strong value. Due to the impacts that climate will have on societies, the way government will figure out responsible policies will also be able to determine their degree of competition and, in the worst case, survival or collapse. The difference between successful or failed climate mitigation policies, in those nation where there are weak institutions will make the difference. Although his call to stay below the 2°C has been already crossed, he proposes three different approaches to the problem: despite the aim to stay below the rise of 2°C and set mitigation goals (for a rise that can be in this case manageable) and resilient regimes and policies with independent national assessments and frameworks, he considers the possibility of a further increase between 2°C and 4°C suggesting to adopt adaptation strategies for greater and several events (also interconnected), improve humanitarian intervention and international resource management framework. The last one is the worst, the case in which temperature will rise up to 7°C: the contingency plan will have to provide a framework planning for crash mitigation.

What we said about Mabey’s risk mitigation theory is, although sharable, an appropriate tool that can serve the investigation of those policies that will be surely common in the next future and are, indeed, an important point of discussion and friction between nations.

Italia, Mattarella Presidente

POLITICA di

Sergio Mattarella è il dodicesimo Presidente della Repubblica italiana, eletto al quarto scrutinio da una larga maggioranza che sfiora quei due terzi degli aventi diritto al voto che sarebbero stati necessari nelle prime tre prove.

Una scelta all’altezza del ruolo che attende il nuovo primo cittadino e dei valori che deve rappresentare.   Insigne giurista e giudice costituzionale, annovera nel suo curriculum qualificate esperienze di governo, parlamentari e di partito che attestano una profonda conoscenza dell’assetto e delle prassi istituzionali e dell’organizzazione amministrativa dello Stato.

Non è un aspetto marginale in una fase in cui l’ondata di antipolitica e di delegittimazione dei partiti e delle classi dirigenti ha favorito sovente l’improvvisazione e l’incompetenza.    In trent’anni di vita politica e di esercizio di funzioni pubbliche, Mattarella ha dato prova di sobrietà, serietà e intransigenza sui princìpi, ancor più evidenziate dalla fermezza dimostrata nella lotta al fenomeno mafioso, già pagata a caro prezzo dal fratello Piersanti, Presidente della Regione Sicilia, assassinato dalla mafia nel 1980.

L’elezione in tempi rapidi di una figura di alto profilo alla massima magistratura dello Stato riscatta, in un certo senso, il nostro sistema politico, pur con le sue lacerazioni e contraddizioni.  Nei momenti più solenni e delicati, infatti, si rivela in grado di esprimere scelte responsabili e lungimiranti che trascendano miserevoli tatticismi e calcoli di convenienza.     Sulla logica dei veti incrociati e del compromesso al ribasso, paventati da diversi osservatori nelle scorse settimane, prevale, con la scelta di Mattarella, il senso di responsabilità e la coscienza dell’interesse superiore del Paese.

Sebbene puntasse ad aggregare un’ampia maggioranza, come è giusto che avvenga per l’elezione del Capo dello Stato che è una figura di garanzia, il PD ha preferito utilizzare il suo sensibile vantaggio numerico per proporre agli altri partiti un unico nome, puntando coraggiosamente sul prestigio del candidato, in grado di attrarre un consenso molto ampio e trasversale.

Il Patto del Nazareno, sulla scelta dell’inquilino del Quirinale, non ha funzionato.  Questa volta, Renzi si è trovato nelle condizioni di poter prescindere dal consenso degli alleati del Nuovo Centrodestra – i cui “grandi elettori” hanno poi, comunque, in gran parte, votato per Mattarella – e dall’ “oppositore-amico” Berlusconi e di ottenere, sulla carta,  un’autonoma maggioranza di partenza ricompattando il suo partito e SEL sul nome del giudice costituzionale siciliano.

Se questa scelta di Renzi di smarcarsi dal Nazareno e, in un primo momento, anche dagli alfaniani, in un passaggio così importante, avrà effetto sulla tenuta dell’esecutivo e sul percorso delle riforme, non è dato sapere, ma probabilmente il NCD non tirerà troppo la corda, perché i rapporti di forza sono assai sbilanciati in favore del premier. E lo stesso Berlusconi non ha forse interesse, al momento, a far saltare il tavolo delle riforme – come al tempo della Bicamerale D’Alema ! -, poiché ciò comporterebbe il rischio di nuove elezioni e questo non è certo il momento più propizio per Forza Italia.

Meglio fare buon viso e continuare a confrontarsi lealmente con Renzi sulle riforme stesse, nell’interesse superiore del Paese, tenendo conto che Mattarella, nonostante trascorsi politici di evidente avversione nei confronti del Cavaliere, nella posizione attuale, per la sua serietà e il rigore etico universalmente riconosciuto, costituirà certamente una garanzia del rispetto delle regole e dei diritti delle parti contrapposte.    E rappresenterà, soprattutto, per il Paese un baluardo della legalità costituzionale nelle acque turbolente della dialettica tra i partiti e dei processi di riforma in essere.

di  Alessandro Forlani

Alessandro Forlani
0 £0.00
Vai a Inizio
×