GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Febbraio 2015 - page 2

Ukraine, Msf report: it’s a humanitarian emergency

Europe/Miscellaneous di

Ukraine is one of the topics on the international board. Over 15000 injured patients, 1600 pregnant women followed by hospitals, about 4000 people with chronic diseases. These numbers are reported by Gabriele Eminente, Msf Italy Director-General, in our interview.

 Where does Msf work in Ukraine? Which are its activities?

Msf planned its humanitarian intervention in a different way because of the kind of conflict which developed in Ukraine in the last year. We usually work with our facilities and fields after an emergency. However, we chose an operational strategy base on five teams which could move with greater perception and portability on territory. The area that i mean is the front line and the band immediately behind. Some groups are located in Donetsk and Lugansk, but we have mobile units for two reasons. The first one, watching Kramatorsk bombing, it’s because we are supporting local hospital and health care facilities: unfortunately, civilian targets have not enough protected. The second one concerns the lack of water, food, power and above all drugs in Donbass region, which we are equipping where they’re missing.

Then we give a psychological assistance to an exhausted population. We’ve already started a hundred talks with individuals and about two thousand with group of people.

But Msf was already in Ukraine before the civil war because there is a high percentage of people affected with Hiv and multidrug-resistant tubercolosis.

 

Hospitals and health centers are constantly under attack from the beginning of the year: after the second Minsk agreement, does the humanitarian corridor eventuality exist?

First of all I want to note the two requests from Msf to Ukrainians and separatists: the instant cease fire; population’s releasing from bombed areas. About the humanitarian corridor, Debaltseve context is one of the most critical as it’s halfway between Donetsk and Lugansk and it’s an important road and railway intersection: so, it’s an essential military target for the warring parties. At the beginning of February, it’s announced the opening of a corridor to exit remaining civilians, but it’s been very difficult to enforce it. It’ll be crucial to verify how the troops will transpose institutional directives.

 

How did war progress in the last year?

This crisis have lived many steps. Last summer was particularly bloody, as Malaysian shot down. The cease fire on September 2014 was a breakdown. And it started a new violent spell between 2014 and 2015. There’s two changes from last year to now. First one we are in the middle of winter. Second one this permanently war has been increasing other effects: Kiev has stopped payment of salaries and financial flows to public servants who live in the eastern regions. This has played up lack of cash, food, and drugs. Msf has collected testimonies from civilians, particularly women and children, who has been forced to refuge in a homeless half-finished center.

 

How are Ukrainian and Pro-Russian populations, especially children, wounded after so many wartime trauma? How will this factor influence peace process?

 As in other similar contexts, there are deep psychological wounds to heal. Our current work is explicitly focusing on the immediate mental assistance. Citizens have shared in two different languages and cultures parts. But now we need end war and save them.

 

The Un have reported more than 5000 victims since Ukrainian crisis.

 I think we have gone over. Ourselves we are observing in Ukraine. Msf’s intervention in Donetsk and Lugansk regions clearly speaks: over 15000 injured patients, 1600 pregnant women followed by our hospitals, about 4000 people with chronic diseases. These alarming informations are showing us a real war near our countries. Perhaps Europe and Italy have not exact feeling about Ukrainian situation yet.

 

Is Ukrainian war underestimated by Western and European countries?

This crisis has not interested the opinion like other conflicts yet. The media have showed the search for a diplomatic solution in recent days. But this event could due to an high and low evolution of Ukrainian war. However, we are speaking about an European fight: it’s hard to understand why there’s not a steady attention about it.

Ucraina, rapporto di Msf: è emergenza umanitaria

Varie di

L’Ucraina è uno delle questioni calde del dibattito internazionale. Oltre 15mila pazienti feriti, 1600 donne incinte seguite da apposite strutture sanitarie, circa 4000 persone malate croniche. Questi i dati riportati da Gabriele Eminente, Direttore Generale di Msf Italia, intervistato da European Affairs.

Dove operate in Ucraina? Quali attività portate avanti nelle regioni dell’est?

“La tipologia di conflitto sviluppatasi nell’ultimo anno in Ucraina ha imposto a Medici senza Frontiere di programmare il proprio intervento umanitario in maniera differente. Normalmente, all’indomani di un’emergenza, interveniamo con le nostre strutture e i nostri campi. In questo caso, invece, abbiamo adottato una strategia operativa basata su cinque squadre che con maggiore sensibilità e mobilità possano muoversi sul territorio. Quando parlo di territorio, intendo la linea del fronte e la fascia, da entrambe le parti, immediatamente a ridosso. Alcuni dei nostri gruppi sono dislocati a Donetsk e Lugansk, ma siamo mobili sul territorio per due ragioni. La prima, prendendo ad esempio il bombardamento su Kramatorsk che è molto più ad occidente della linea del fronte, è perché supportiamo ospedali e strutture sanitarie locali: purtroppo, sin dall’inizio, questa guerra ha tutelato davvero poco gli obiettivi civili e spesso i bombardamenti hanno interessato gli ospedali stessi. Questo ha comportato il grave danneggiamento di tali strutture e molte delle vittime sono stati gli operatori sanitari. La seconda, parlando appunto della regione del Donbass, riguarda la carenza di acqua, cibo, forniture elettriche e, soprattutto, farmaci, che noi forniamo laddove mancano: tra grandi e piccoli centri urbani, noi supportiamo un centinaio di strutture sanitarie. E, sempre a proposito di mobilità, la nostra missione è quella di cercare di raggiungere quei centri che risultano isolati.

Un altro ambito nel quale ci muoviamo è quello dell’assistenza psicologica ad una popolazione stremata da questo conflitto. Abbiamo avviato già un centinaio di consultazioni con singole persone e circa duemila di gruppo.

Un ultimo capitolo dell’attività di Msf ha a che fare con la ragione per cui noi eravamo già presenti in Ucraina, in particolare nell’est: in quella zona esiste un’alta percentuale di persone affette da Hiv e da Tubercolosi multiresistente, ovvero quella malcurata che ha sviluppato una resistenza ai farmaci tradizionali.

Ospedali e presidi sanitari sono costantemente sotto attacco dall’inizio dell’anno: esiste la prospettiva di un corridoio umanitario, previsto nel secondo accordo di Minsk?

Innanzitutto, voglio rimarcare quelle che sono le due richieste avanzate da Medici senza Frontiere alle due parti in conflitto: la prima è l’immediata cessazione di attacchi ad obiettivi civili, in particolar modo a strutture sanitarie; la seconda è avere la possibilità di fare uscire la popolazione civile da quelle zone che rischiano di diventare delle enclave da cui sarebbe difficile fuggire a causa dei bombardamenti. Venendo al tema del corridoio umanitario, Debaltseve è uno dei contesti più critici perché è più o meno a metà tra Donetsk e Lugansk e un centro d’intersezione di nodi stradali e ferroviari: pertanto, è un importante obiettivo militare per le parti in conflitto. Ad inizio febbraio era stata annunciata l’apertura di un corridoio per favorire la fuoriuscita dei civili rimasti in loco, ma nella pratica è stato molto difficile farla rispettare. Quello che in queste situazioni fa la differenza è verificare che le parti militari coinvolte recepiranno le direttive a livello politico e diplomatico. Purtroppo il precedente dell’estate scorsa non è incoraggiante.

Come si è evoluto il conflitto nell’ultimo anno?

Ci sono state molte tappe. L’estate scorsa è stata particolarmente cruenta: vedi la tragedia dell’aereo malese. Tutto questo aveva portato al cessate il fuoco di settembre, il quale, però, non ha portato ai risultati sperati per tutta una serie di ragioni politiche in essere tra Russia ed Ucraina. Inoltre, tra fine 2014 e inizio 2015, abbiamo registrato il riacutizzarsi di una fase molto violenta. Le differenze tra queste fasi sono due. La prima è che siamo in pieno inverno in una regione in cui esso ha forti ripercussioni sulla popolazione. La seconda è che la lunga durata di queste tensioni hanno accentuato gli effetti secondari: ricordiamoci che il governo ucraino ha interrotto il pagamento degli stipendi e, più in generale, i flussi finanziari verso i dipendenti statali che vivono nelle regioni orientali. Questo di fatto ha portato una mancanza di liquidità e, al tempo stesso, ad una mancanza di generi alimentari e farmaci. Noi abbiamo ad esempio raccolto la testimonianza di civili, in particolar modo donne e bambini, che sono stati costretti a rifugiarsi in un centro che era stato pensato ancora prima della guerra come rifugio per i senzatetto e che non era stato ancora completato. I nostri psicologi, che operano in questa struttura, parlano di un profondo stress a cui è sottoposta questa gente.

Visti i numerosi traumi che colpiscono la popolazione, in special modo i bambini, quanto sono profonde le ferite, a livello sociale, tra ucraini e russofoni? Quanto questo fattore inciderà nel processo di pace in futuro?

Nel medio-lungo termine, come in altri contesti simili, ci sono ferite psicologiche profonde che vanno curate. Chiaramente, il nostro attuale lavoro di assistenza psicologica di concentra più sull’immediato: quindi, è un supporto di base verso i traumi subiti dalla popolazione. Popolazione divisa in due parti con lingue e culture differenti: ecco, questo sarà poi un intervento incisivo da fare. Prima di questo, c’è bisogno di porre fine al conflitto e mettere al riparo i cittadini.

Le Nazioni Unite parlano di oltre 5000 vittime dall’inizio della crisi ucraina.

Credo che questo numero ormai sia stato superato. Lo stiamo osservando noi stessi in Ucraina. L’intervento che stiamo portando nelle regioni di Donetsk e Lugansk ha cifre molto chiare: oltre 15mila pazienti feriti, 1600 donne incinte seguite dai nostri ospedali, circa 4000 malati cronici gravi. Sono dati importanti che parlano di una guerra vera, a due passi da casa nostra. Forse Europa ed Italia non hanno ancora la piena percezione di quanto sia acuto questo problema.

L’Occidente e l’Europa hanno quindi sottovalutato questo conflitto? Manca la percezione che in Ucraina sia in corso una guerra civile in tutto e per tutto?

In relazione all’opinione pubblica italiana, mi sento di confermare questo. Questa crisi non ha ancora raggiunto quel livello di attenzione dimostrato verso altri conflitti. In questi ultimi giorni, i media hanno coperto il tema della ricerca di una soluzione diplomatica alla guerra. Ma probabilmente questo è dovuto al fatto che questa guerra ha subito un’evoluzione con alti e bassi dal punto di vista della virulenza. Tuttavia, parliamo di un conflitto in Europa ed è difficile capire come non ci possa essere un’attenzione costante verso di esso.

Donne curde e rivoluzione: oltre l'autodifesa

Medio oriente – Africa di

Tanto si è detto e scritto in questi ultimi quattro mesi sulle donne curde, in virtù di quello che accadeva a Kobane, in Rojava (Kurdistan siriano). Si è dato spazio soprattutto alle immagini delle donne curde, donne che solo in pochi conoscevano, per evidenziare la loro giovane età, la loro bellezza e il fatto che avessero imbracciato un’arma. Ma questo non è che l’aspetto più superficiale di quanto sta accadendo in quella parte di Medio Oriente. Sì, perchè le donne curde lì stanno facendo una rivoluzione, ma in tutti gli ambiti della società. E l’aspetto militare non è che uno fra questi, e non sarebbe nemmeno il più importante se non fosse per il particolare momento, che vede la necessità dell’autodifesa dagli attacchi che il popolo curdo subisce con rinnovato vigore da ISIS come prima da altri gruppi, per esempio Al Nusra, affiliato a Al Qaeda, ma anche da parte del regime di Assad.

Dietro i volti delle nostre donne, dunque, c’è di più. Il loro coraggio e la loro determinazione hanno aperto un varco che deve lasciare spazio a un’analisi più profonda del processo cominciato diversi anni fa con la formazione di un partito delle donne e delle unità femminili di difesa del popolo in seno al movimento curdo, soprattutto in Nord Kurdistan (Turchia). Il Partito dei lavoratori del Kurdistan e il suo leader Abdullah Öcalan, da 16 anni in prigione sull’isola di Imrali, hanno cominciato questo processo, con un paziente e sotterraneo lavoro tra le famiglie, le studentesse, le lavoratrici, per riflettere sul ruolo delle donne e sulla loro oppressione nella società tradizionale curda. Abbiamo studiato e analizzato la posizione della donna nelle diverse epoche storiche e nei diversi luoghi, per scoprire che la donna curda subiva una doppia oppressione, come popolo e come genere. Questo lavoro ha portato a una presa di coscienza delle donne, che si sono sempre più impegnate in tutti i settori della società, fino a acquisire coraggio e fiducia in se stesse e ad assumere un ruolo attivo.

Il punto di partenza delle donne, addirittura, ha dimostrato di essere privilegiato rispetto a quello degli uomini: a causa dell’oppressione di genere, l’assimilazione è stata meno invasiva. Quando per diversi motivi le donne non hanno studiato, non hanno imparato il turco o l’arabo, significa che non si sono assimilate al sistema, e che gestiscono dal basso la propria famiglia e il proprio villaggio autonomamente. Questo è il principio dell’autonomia democratica, un principio molto femminile dunque, contro l’ideologia dall’alto verso il basso dello stato-nazione.

Piano piano le donne sono arrivate a contare di più, sia in famiglia, sia in politica, sia nell’economia e nella società in generale. Si sono formate associazioni, cooperative, perfino agenzie di stampa di donne, per rispondere con azioni concrete a questa oppressione. Le donne si sono prese il loro posto anche nel sistema rappresentativo: il modello dell’autonomia democratica, che è quello che oggi i curdi stanno cercando di realizzare in Turchia come in Siria, non prevede la riproposizione di un nuovo stato-nazione con il suo portato di schiavitù e oppressione, bensì la realizzazione di ciascuno con le sue peculiarità insieme agli altri, che siano gruppi etnico-linguistici, religiosi, politici e di genere. Da qui il meccanismo della co-presidenza di genere: ossia non un presidente e un vice, ma due presidenti di cui un uomo e una donna. E in tutti gli organismi rappresentativi funziona così, non solo per il genere ma anche per le diverse componenti della società, musulmani, zoroastriani, cristiani, ezidi, arabi, turcomanni.

Contro questo sistema si è scagliato IS, lo Stato Islamico, che non tollera la diversità, e che vede la donna come una minaccia da rinchiudere, salvo averne paura sul campo di battaglia in quanto qualche religioso avrebbe interpretato che l’essere uccisi da una donna non farebbe entrare in paradiso dopo la morte. Ma anche il partito AKP di Erdoğan partecipa di questa ideologia, perché ha un’idea completamente subalterna della posizione delle donne nella società. Non a caso, tre donne curde sono state vittima di un brutale assassinio due anni fa a Parigi: con l’attiva parte dei servizi segreti turchi, sono state prese di mira in quanto donne, in quanto simbolo di questa rivoluzione che è l’autonomia democratica.

A livello pratico, nell’attività politica rivoluzionaria all’interno del movimento curdo, le donne hanno trovato uno spazio di libertà che ha permesso loro di conquistare rispetto e dignità e di affrancarsi dai ruoli subordinati tradizionali, e hanno saputo dimostrare di valere quanto e anche più dei loro compagni maschi. C’è ancora molto da fare ovviamente, perché la mentalità feudale saldata alla modernità capitalistica è molto pervasiva, nessuna e nessuno ne è totalmente immune, neanche le donne stesse.

Questo processo è ormai innescato, e sarà molto difficile tornare indietro. Ma il modello che propongono e per il quale queste donne hanno lottato e continueranno a lottare è la potenziale soluzione ai problemi dei popoli in Medio Oriente, e forse anche altrove. Autorganizzazione, partecipazione, autodifesa, democrazia, ecologia: molte di queste donne, una volta che – si spera presto – sarà finita la guerra, non vorranno tornare a vivere in un mondo che le discrimina e le esclude, ma vorranno continuare su questa strada: e questa è già una rivoluzione.

 Suveyda Mahmud

 

L’arma laser è realtà, ed è a stelle e strisce

INNOVAZIONE di

Non si tratta di un test, l’arma funziona ed è operativa. Così l’Ammiraglio Kunder risponde definitivamente alle domande che sorgono spontaneamente a chi legge queste righe. Operativa significa, per inciso, che è pronta ad essere usata se le condizioni lo richiedono. A fine 2014 la nuova arma, che fino a pochi anni fa sembrava solo finzione, è stata impiegata con successo dalla marina militare a stelle e strisce in una simulazione a bordo del’imbarcazione da trasporto anfibio USS Ponce a largo delle coste dell’Iran, nel Golfo Persico.

L’arma (infinitamente più potente di un semplice puntatore laser) è in grado di colpire e distruggere velivoli ed imbarcazioni con una precisione elevatissima se utilizzata alla sua massima potenza. Il suo utilizzo però può essere anche diverso dall’abbattimento di un drone o di una postazione missilistica navale: può essere infatti impiegato per distruggere o danneggiare strumenti e sensori se utilizzato a potenza ridotta. Ha dimostrato di essere molto affidabile e di non risentire particolarmente delle condizioni meteorologiche. Il sistema LaWS, Laser Weapon System può essere montato utilizzando un proprio generatore per il sostentamento oppure collegandosi alla rete elettrica dell’apparato su cui viene installato.

Le dimensioni sono piuttosto ridotte, il che lascia presumere che in futuro potrà essere fatto alloggiare su velivoli e mezzi di terra. In più garantisce un impiego a costo quasi zero. Diversamente dall’impiego di un razzo, che richiede manutenzione tecnica, meccanica, aggiornamenti e modifiche oltre che spese notevoli in carburante, il sistema LaWS comporta costi ridicoli se paragonato a quelli delle armi in commercio. In periodi di continui tagli ai budget della difesa, costruire in larga scala un apparato di questo tipo sarebbe un’ottima soluzione per rispettare i sempre più rigidi parametri di costo ed efficienza. Lo sviluppo e la realizzazione di una chimera rincorsa da tutti i governi è in realtà una nuova porta verso l’ignoto. Un altro passo importante nel campo tecnologico che gli Stati Uniti sicuramente sapranno ben combinare con quello della robotica.

Forse non è un caso che l’operazione si sia svolta vicino l’Iran, sebbene fonti ufficiali riportino che si trattava di uno scenario che permetteva un test in condizioni di operatività ottimali e non. Le tempistiche del test potrebbero non rivelare particolari interessanti, per quanto restino importanti. Sicuro è che resta un messaggio per questo Stato che non può fare a meno di pretendere per se stesso la tecnologia nucleare e che ora dovrà stare attento anche a quelli che sembravano prodotti in scadenza. Si perchè la Ponce vanta già qualche decennio di carriera e nonostante ciò, grazie a questo sistema, può rivelarsi una seria minaccia. Stiamo pur sempre parlando di un’arma che necessita solamente di un generatore per funzionare.

Forse non è un caso, ma ci ritroviamo di fronte all’ultimo paradosso (in ordine di tempo) delle sfide militari e tecnologiche. Proprio l’Iran ci offre una sponda interessante: il nucleare, una tecnologia letale contenuta in un piccolo spazio che si riduce (se utilizzata) nella totale distruzione di uomini, fauna e flora. Essendo un’arma di tipo massivo e distruttivo non occorre che sia precisa. Occorre però un elevato grado di sviluppo tecnologico per la sua produzione, il suo trasporto e l’utilizzo da terra, acqua e mare. Il confronto in questo caso è con una tecnologia talmente avanzata da essere in grado di stimolare gli elettroni e farli viaggiare insieme, convogliandoli in un fascio che, dal semplice uso come puntatore per armi, elusore o guida per missili si trasforma in un’arma capace di essere millimetricamente mortale anche chilometri di distanza (l’utilizzo contro persone è vietato). I nuovi test hanno dimostrato che l’arma è estremamente affidabile in termini di precisione ed energia richiesta per l’utilizzo. In più non risente di fattori in grado di modificarne la potenza sulle lunghe distanza come polvere o sabbia.

La sfida che spetta al Pentagono ora è anche una sfida di ritorno, tutelare il segreto di questa strabiliante ed efficientissima nuova arma. E non sarà cosa da poco.

 

Nigeria, si allontanano le elezioni

Medio oriente – Africa di

La pressione dei terroristi di Boko Haram nel nord est del paese non permettono lo svolgimento delle elezioni presidenziali previste inizialmente per lo scorso 14 febbraio.

Gli analisti internazionali non si aspettano però che il governo nigeriano riesca a rispettare anche questa data vista la difficile situazione del paese e le basse aspettative sulla riuscita di azioni military a contrasto delle milizie fondamentaliste.

Le violenze perpetrate nel Nord Est da Boko Haram si sommano alle tensioni che caratterizzano le tornate elettorali della Nigeria rendendo di fatto impossibile garantirne lo svolgimento.

Le elezioni metteranno a confronto il Presidente uscente, il cristiano Goodluck Jonathan, del Partito Democratico Popolare (PDP) e l’ex Generale musulmano Muhammadu Buhari, leader del Congresso dei Progressisti (CP), che era stato sconfitto nelle precedenti elezioni presidenziali del 2011 proprio da Jonathan.

Proprio la ricandidatura dell’attuale president Jonathan ha aperto una stagione di tensioni e violenze tra le fazioni che si dicono di religion Cristiana e quelle di origine musulmana guidata dal leader Muhammadu Buhari. Il rinvio delle elezioni potrebbe esacerbare le tensioni tra i due gruppi.

In questo contesto continuare a ritardare l’appuntamento elettorale acuirebbe le tensioni tra I due gruppi in lotta per il potere.

A contrasto dell’attività di Boko Haram il governo Nigeriano ha schierato migliaia di uomini alla frontier con il CIAD dove risiedono le basi dei miliziani mettendo in crisi la loro tattica di penetrazione nel paese per rapidi colpi di mano.

Grazie anche alla decisione dell’Unione Africana che a support delle attività antiterrorism ha autorizzato il dispiegamento di una forza regionale composta da 7500 soldati con l’obiettivo prioritario di bloccare il sistema logistico di Boko Haram.

In questi giorni l’offensiva più significativa ha preso di mira Gombe, capitale dello Stato omonimo. I miliziani fondamentalisti  sono stati respinti  ma il pericolo di perdere di nuovo il controllo della città è molto alto.

 

 

Libya, Islamic Caliphate at Italy’s door

Middle East - Africa di

“An Islamic Caliphate at our door is more than a possibility. We need Onu’s help to bring in Libya. So Interior Italian Minister Angelino Alfano has spoken about of Islamist infiltration’s risk in Italy. But these words, which has followed Foreign Italian Minister Paolo Gentiloni, are late as Libyan context is collapsing during the last year.

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Meanwhile, on the 16th Febraury night, Egyptian aviation, in cooperation with Libyan air force, has bombed Isis targets in Derna as a consequence of beheadings of 21compatriot Christians. “The plan is to target all Is locations in the country wherever they are”, has announced Egyptian President al Sisi.

Sirte conquered from Isis on 13rd Febraury, which also controls all Cyrenaica. Italians’ rempatriation on 16th February. Libyan institutional situation out of control, with legal al Thani government against al Hassi government. Therefore, the Sunni risk is just knocking to the Europe door.

Probably, Italy and all Western partners realize Isis’ advance through Libya too late. And only today, Rome “has discovered” that terrorists, hidden by immigrants, could put to sea to reach Southern Italy coasts.

But today the reaction must be different compared with 2011, when France decided to bomb Libyan troops to strike out Gaddafi’s regime. From that moment, a social and instituional chaos started. The Hollande’s request of immediate convocation of Un Security Council mustn’t propose again the same situation. For this reason, US and European Union will have to put a comprehensive solution for Libya.

Giacomo Pratali

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Libia, il Califfato bussa alla porta dell’Italia

Medio oriente – Africa di

“Un califfato islamico alle nostre porte è ormai più di una possibilità. Abbiamo bisogno dell’aiuto dell’Onu per intervenire in Libia”. Si è espresso così il ministro degli Interni Angelino Alfano a proposito del rischio di una infiltrazione islamista in Italia. Ma queste parole, che fanno seguito alle dichiarazioni del titolare della Farnesina Paolo Gentiloni, appaiono in ritardo visto il collasso della Libia durante l’ultimo anno.

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Intanto, nella notte del 16 febbraio, l’aviazione egiziana, in collaborazione con quella libica, ha bombardato gli obiettivi strategici dell’Isis a Derna in risposta alla decapitazione dei 21 compatrioti cristiani. “Il piano è di colpire i punti del Paese dove si è insediato lo Stato Islamico, ovunque essi siano”, ha dichiarato il Presidente dell’Egitto al Sisi.

Sirte conquistata il 13 febbraio dall’Isis, già in possesso di tutta la Cirenaica. Il rimpatrio degli Italiani il 16 febbraio. La situazione istituzionale della Libia fuori controllo, con il governo riconosciuto di al Thani contrapposto a quello di al Hassi. Il rischio sunnita, insomma, sta già bussando alla porta dell’Europa.

È probabile che l’Italia e i partner occidentali si siano resi conto del pericolo Isis troppo tardi. Roma si è “accorta” solo adesso che i terroristi, nascosti tra gli immigrati, potrebbero arrivare via mare nel sud del Paese.

Ma oggi la reazione deve essere differente rispetto a quella del 2011, quando la Francia decise di prendere d’assedio le truppe libiche per fare fuori il regime di Gheddafi. Da lì, ebbe iniziò un caos istituzionale e sociale nell’intero Paese che ci portiamo avanti fino ad oggi. La richiesta di Hollande di un’immediata convocazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu non deve proporre di nuovo quello scenario. Per questi motivi, Usa ed Unione Europea devono mettere sul piatto una soluzione che sia di ampio respiro per la Libia.

Giacomo Pratali

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ISIS verso Sirte, la Libia paese a rischio

Varie di

Avanzano le milizie di fondamentalisti legate ai terroristi dopo il misero fallimento dei colloqui di pace di Ginevra ai quali il parlamento parallelo di Tripoli non ha voluto partecipare.

Le  milizie filo-islamiche di Fajr Libya hanno preso il sopravvento, le bandiere nere si vedono sempre più frequenti, mentre le milizie che non si alleano al Daesh si preparano a difendere le proprie città.

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A rischio anche l’arsenale dell’esercito di Gheddafi che fino ad oggi è stato parcellizzato tra le varie fazioni in lotta tra loro ma la probabilità che i rinforzi dell’ISIS che stanno affluendo nel paese possano portare anche tecnici in grado di utilizzare armi strategiche a medio raggio già in possesso di Gheddafi.

Intanto vengono fatti evacuare gli italiani presenti nel paese compresi gli addetti dell’Ambasciata che per il momento resta chiusa per l’aggravarsi delle condizioni di sicurezza

«Qualsiasi decisione sulla delicatissima situazione in Libia deve necessariamente essere presa coinvolgendo il Parlamento. Non andranno però escluse tutte le azioni diplomatiche e politiche per scongiurare un intervento militare che, a causa della complessa situazione presente in Libia, potrebbe portare a tragiche conseguenze come già accaduto in Somalia, ma stavolta a pochi chilometri dall’Italia». Lo ha dichiarato il vicepresidente del Copasir, Giuseppe Esposito, senatore di Area Popolare (Ncd-Udc).

«Ogni iniziativa dovrà essere portata avanti – ha aggiunto Esposito – coinvolgendo l’Onu e la comunità internazionale, senza intraprendere soluzioni avventate che potrebbero causare danni maggiori al nostro Paese. Le minacce dell’Isis non possono essere sottovalutate e la sicurezza del nostro Paese deve essere garantita – ha concluso – con determinazione e trasparenza».

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Gli italiani evacuati con una nave affittata dal governo italiano a Malta sono scortati da una nave della Marina Militare e da un predator dell’Aeronautica Militare verso il  porto de la Valletta a Malta per poi proseguire verso la Sicilia.

Negoziare per salvare la vita umana

Varie di

Uffici e supermercati assaltati, sparatorie nelle vie delle capitali europee con armi da guerra, ostaggi e rapimenti questa la tattica di guerra del fondamentalismo islamico. La lotta si sposta dai deserti sabbiosi della Siria e dell’Iraq per arrivare tra le vie di Parigi, Copenaghen, Londra con azioni sempre più efferate e imprevedibili.

In questo quadro di massima allerta emerge la necessità di porre in campo personale sempre più specializzato che sappia affrontare situazioni sempre più difficili come la negoziazione di ostaggi.

Questo tema è stato sviluppato soprattutto negli stati uniti e sempre più in tutte le forze di polizia che nel tempo hanno dovuto affrontare crisi di questo tipo, in passato principalmente in casi di delinquenza ordinaria ma negli ultimi decenni sempre più spesso nel contesto di contrasto al terrorismo.

Proprio in Italia è stato recentemente fondato un polo di formazione specifico di carattere internazionale, l’École Universitaire Internationale  diretta dalla dottoressa Sabrina Magris che abbiamo incontrato e intervistato a Roma durante uno dei seminari dedicati alla formazione degli operatori specializzati

Dottoressa Magris, di cosa si occupa la EUI?

École Universitaire Internationale è Istituto di Alta Specializzazione sui temi di pace e sicurezza. È un istituto di ricerca ed è tra i 52 Istituti al mondo ai quali il Peace Operations Training Institute, che ha mandato per il percorso di formazione UN-COTIPSO, ha affidato la formazione frontale. In particolare è punto di riferimento mondiale nei temi della negoziazione degli ostaggi, dell’antiterrorismo e psyops, e per le metodologie non convenzionali legate alla negoziazione di ostaggi.

Negoziazione ostaggi, qual’e lo stato dell’arte in Italia ?

Non esiste in questo momento in Italia un team specifico di negoziazione ostaggi così prettamente strutturato come all’estero. Vi sono all’interno delle Forze Armate dei gruppi tattici che si occupano anche di negoziazione, ma non nel modo in cui Nazioni Unite e NATO intendono la negoziazione degli ostaggi nelle recenti direttive.

Quanto è importante la formazione in questo contesto?

La formazione è basilare perché le innovazioni sono costanti e bisogna essere almeno uno o due passi avanti a chi compie questo tipo di atti, per gestirli e anche per riuscire a prevenirlo soprattutto in ambito terroristico. Ecco perché all’interno di École Universitaire Internationale vi proprio un centro di ricerca di analisi biologico-comportamentale C.R.A.Bi.C.. Oltre che in fase di attivazione, una ricerca in ambito dei metodi non convenzionali applicati alla negoziazione degli ostaggi.

A chi sono indirizzati i corsi?

Le attività di École Universitaire Internationale sono indirizzate a forze dell’Ordine e Forze Armate, a personale operativo, a personale di ONG e Organismi internazionali, personale medico che si trova ad operare in zone di conflitto, studenti universitari e futuri professionisti.

I recenti eventi evidenziano l necessita di impiegare personale specializzato cosa ne pensa?

I recenti eventi evidenziano la necessità di personale addestrato non solo dal punto di vista tattico ma anche preparato nella gestione di scenari in continua evoluzione e non già pre-classificati. La sfida sta nella rapidità di decisione e azione, poiché il terrorismo attuale è lì che si insinua.

Nei rapimenti in zone di guerra pagare e l’unica soluzione? Perché si decide di pagare ?

Di base un cittadino del proprio Stato dovrebbe essere sempre portato a casa, questo è un principio fondamentale. Poi bisogna sottolineare che il riscatto, che è una prassi usata in tutto il mondo e recentemente anche da Obama, può far parte di una strategia e può servire per una mappatura dei terroristi e del flusso di denaro. Il riscatto può dunque essere uno strumento per catturare i terroristi e recuperare anche il denaro ma questo avviene in un secondo momento e dunque se ne parla meno.

Una sala piena quella del seminario in corso a Roma mentre parliamo con la direttrice, uomini e donne in pari misura, giovani operatori ma anche personale con più esperienza in aula acquisisce nozioni e informazioni per imparare a negoziare, settore che evolve e coinvolge drammaticamente il vissuto quotidiano di milioni di persone.

 

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La Libia in amministrazione fallimentare

Medio oriente – Africa di

A vederle oggi certe realtà politiche danno più l’impressione di essere gestite in regime di amministrazione fallimentare, piuttosto che governate da istituzioni vagamente riconosciute o che abbiano qualche parvenza di affidabilità sul lungo termine.

L’intensa crisi politica e sociale che sta interessando la Libia può essere ben descritta da alcuni dati: nell’anno appena concluso sono oltre 2500 le vittime ufficiali del confronto tra fazioni (a cui andrebbero aggiunte le morti causate dalle traversate del deserto, quelle in mare ecc.), milioni di armi di vario calibro sono a disposizione della popolazione (importate o sottratte alle riserve del passato regime) e centinaia le fazioni grandi e piccole che si contendono la loro fetta di territorio, con un livello di criticità dell’intera area del Sahel libico corrispondente a quello di una zona ad alto rischio. Per intenderci, nel rating che bolla uno Stato come fallito, la Libia è a metà, a un passo dal fallimento ufficiale.

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Non che in passato questo Paese godesse di condizioni di stabilità diffusa ed ordine sociale, ma certamente la crisi terminata con la morte di Gheddafi ha fatto esplodere una bomba ad orologeria tenuta sotto controllo da esercito, polizia e accordi locali che si sono rivelati fragili e dettati da questioni di convenienza politica. D’altra parte per lo stesso Gheddafi era divenuto ormai impossibile controllare un territorio di quasi due milioni di chilometri quadrati, in larga parte disabitato e desertico che si era trasformato in una delle bocche africane dalle quali fuoriuscivano profughi diretti verso le nostre coste: dalla sua capitale non a caso situata a nord, il Ra’is controllava ben poco, ma se non altro la sua autorità politica gli consentiva di mediare per quella porzione di Libia che valesse la pensa rappresentare, considerando il caos tribale del sud.  E comunque, era pur sempre un leader con cui volenti o nolenti si era tenuti a trattare. Proprio l’instabile meridione libico è al contempo compreso nella fascia centrale del deserto del Sahara e rappresenta il nord di quel buco nero, quella zona grigia che è il Sahel, riconosciuta come una delle aree più pericolose del mondo ed in cui non vi è praticamente alcuna forma di governo riconosciuto se non quello tribale, legato a traffici di armi, droga e persone.

Non solo a causa della sempre crescente presenza dei miliziani dell’ISIS ma anche per colpa di uno stato di instabilità che lo sta risucchiando, questo territorio rischia ogni giorno di più di entrare ad ogni titolo tra i cosiddetti Failed States, appellativo caro agli occidentali ma che descrive realtà statali collassate, non Paesi che da sempre si sono retti su una sorta di amministrazione fallimentare permanente (di fatto lo era con Gheddafi, di fatto lo sono molti altri governi tenuti in piedi con la forza). Queste debolezze sono alla base della facilità con cui le milizie dell’ISIS sono penetrate nella regione e sono riuscite a farsi largo tra le varie fazioni. Inoltre, in una nazione in guerra come la Libia affannata internamente da una tendenza all’implosione incontrollata ed esternamente dalla sfida al ribasso lanciata sul petrolio oltre che alle influenze degli Stati confinanti e non, il controllo della produzione di greggio resta un’incognita enorme ed allo stesso tempo un’importante partita non solo per i partner esterni. Da esso si sono scatenate rivolte interne, ammutinamenti, da esso dipende la credibilità del futuro governo o della futura coalizione nonché la tenuta del patto civile interno alla Libia stessa.

L’evoluzione della situazione che ha reso più potenti alcune fazioni (vedi i gruppi che controllano la zona di Misurata) non ha portato ad un indebolimento di altre, ragion per cui lo scontro fra ribelli pre e post Gheddafi è ancora molto vivo. Sono in molti a ritenere propria la fiaccola di paladini della libertà o a dichiararsi eredi della Primavera Araba e nessuno è disposto a cedere lo scettro, tanto più quando c’è di mezzo lo scontro tra esponenti dell’antico regime ed islamisti. A questo punto ci si è arrivati anche a causa agli scontri avvenuti nel 2014, che hanno visto come risultante un ricompattamento del fronte islamista da un lato (antichi gruppi fomentati dall’ondata fondamentalista), contrapposto al fronte anti islamista o progressista dall’altro. Questo rapido inasprimento delle violenze ha avuto tra le cause principali la lotta per il controllo del governo (di qui il fallito tentativo di golpe del generale Haftar). Ad oggi si contano oltre mille gruppi armati a contendersi il territorio o una qualche minima fonte di legittimità. A calmare la situazione non sono bastati i governi succedutisi in questi ultimi anni che, anzi, non hanno potuto fermare le guerre fratricide di chi da una parte o dall’altra si proclama erede della rivoluzione e non hanno potuto fermare neanche esecuzioni, rapimenti, omicidi che giornalmente si sono compiuti. Attualmente, nel rispetto della geografia del Paese, a ovest del golfo di Sidra nella capitale Tripoli si è insidiato un governo islamista e ad est del golfo, nella zona di Tobruk il governo di al Thani e del generale Haftar. Quest’ultimo ha un passato interessante, trascorso in parte negli USA dove emigrò per poi ritornare per il fallito colpo di stato e autoproclamandosi principale bastione contro le milizie islamiste. Accusato di essere agente della Cia, è però parte dell’esecutivo attualmente riconosciuto dalla comunità internazionale e più o meno apertamente appoggiato dal vicino Egitto (che dal canto suo teme la nascita di basi di addestramento dello Stato Islamico al confine con il suo Egitto).

In tutto il resto della nazione è anarchia, che rischia di fagocitare anche i due grandi competitors.

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Francesco Danzi
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