GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Luglio 2014

Disastro aereo Ucraina: tra le responsabilità dei separatisti e l’escalation della guerra verbale tra Putin e i leader mondiali

EUROPA di

Il Boeing 777 della Malaysia Airlines abbattuto da un missile Buk in dotazione ai filorussi. Il rimpallo di accuse fa da contraltare alle polemiche al permesso negato agli osservatori dell’Ocse di condurre le indagini sul luogo dello schianto

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“La responsabilità di quanto è accaduto è da attribuire a Putin, colpevole di aver armato i separatisti filorussi. Adesso auspico che agevoli le indagini”. È l’ennesimo richiamo ufficiale, a pochi giorni dall’abbattimento del Boeing 777 della Malaysia Airlines nei cieli dell’Ucraina orientali in cui sono morti 298 civili, rivolto dal presidente Obama al capo del Cremlino.

Il rimbalzo di responsabilità a poche ore dal disastro aereo tra Kiev e i combattenti secessionisti ha lasciato spazio alla quasi certezza che sono stati quest’ultimi ad avere abbattuto l’aereo di linea partito da Amsterdam e diretto a Kuala Lumpur. La mancanza di uno dei due radar necessari per riconoscere l’obiettivo ha fatto sì che il missile Buk (lanciato probabilmente dalla cittadina di Snizhne) abbia abbattuto il Boeing 777, nonostante questo fosse un velivolo di natura civile.

Ma l’incancrenimento del conflitto e dell’astio tra Kiev e Mosca e separatisti filorussi ha portato ad un clamoroso rallentamento delle indagini. Da subito gli Usa, l’Ue, la Nato e il premier malese Razak hanno chiesto un’indagine veloce, che faccia al più presto luce sull’accaduto. Nonostante i corpi olandesi siano sulla via del ritorno, i ribelli di Donetsk hanno cercato di ostacolare, a più riprese, le ricerche degli operatori internazionali sul luogo dello schianto.

I miliziani filorussi hanno dapprima avuto la responsabilità di aver recuperato resti e corpi e di averli messi su un camion diretto a Donetsk, senza permettere agli osservatori Ocse di poter svolgere la necessaria indagine sul campo per ricostruire in modo fedele le dinamiche dell’incidente. Oppure, di non avere consegnato subito le due scatole nere recuperate a terra. In più, gli stessi ispettori sono stati ostacolati nelle loro ricerche: ad esempio, gli è stato consentito di visionare un’area distante solo 200 metri da luogo del disastro, quando detriti e resti di cadaveri sono stati ritrovati a 20 chilometri di distanza.

Dopo la ripresa degli scontri nell’Ucraina orientale, dopo la breve tregua seguita all’incidente aereo, Putin continua ad accusare Kiev del disastro aereo. Ma la richiesta dei leader mondiali di una maggiore collaborazione nelle indagini e di un’adeguata opera di dissuasione presso il fronte filorusso, non potrà rimanere inascoltata dal Cremlino.

Questo avvenimento ha portato una nuova ventata di gelo nei rapporti tra Mosca e Kiev e continue minacce di sanzioni e provvedimenti da parte dell’Unione Europea (duro è stato il colloquio telefonico di sabato tra Cameron e Putin) e degli Stati Uniti. Ma quello che appare evidente è che l’abbattimento dell’aereo della Malaysia Airlines ha reso, se possibile, ancora più internazionale la crisi ucraina. La dotazione militare fornita ai sepatisti filorussi, rende la Russia corresponsabile di quanto avvenuto. E rende ancora più chiaro che la risoluzione diplomatica del conflitto nel paese ex sovietico passi dal dialogo tra Putin da una parte e Obama (e Nato) dall’altra.

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L’Iraq e il rischio di un’instabilità permanente

Medio oriente – Africa di

Le divisioni socio-politche in seno al Paese alla base del successo militare dell’Isis. Il premier sciita al-Maliki, rifiutando un governo di unità nazionale, sta di fatto cedendo il passo all’avanzata dei ribelli sunniti

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Il radicamento dell’Isis e delle forze sunnite nel nord-ovest unito all’intransigenza del premier al-Maliki di fronte agli appelli della comunità internazionale per la costituzione di un governo di unità nazionale, compongono il quadro di un Iraq che rischia di disgregarsi dal punto di vista politico. In più, l’annuncio della creazione del Califfato da parte del leader al-Baghdadi e il non intervento militare diretto da parte di Stati Uniti ed Iran rischiano di acuire in negativo questa situazione.

Le milizie sunnite, oltre ad avere conquistato Rawa e Al-Qaim (a 250 e 300 km a ovest di Baghdad), hanno consolidato il loro potere a Tikrit e Mosul. Questo ha consentito allo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante di proclamare, dopo circa un secolo dalla sua caduta, il Califfato, che va dalla regione di Aleppo in Siria alle sopraccitate città irachene.

Questo fronte, come già visto in Siria, è tutt’altro che unito e questo è un punto a favore di al-Maliki. Isis e al-Qaeda sembrano aver seppellito temporaneamente l’ascia di guerra dopo oltre un anno, ma le varie componenti sunnite dell’Iraq, soprattutto i ba’thisti, sembrano avere degli obiettivi a medio-lungo termine differenti rispetto al gruppo jihadista guidato da al-Baghdadi.

Ma questa è l’unica nota lieta per l’attuale esecutivo iracheno. Stati Uniti, Iran ed Unione Europea hanno unanimemente auspicato, tra fine giugno ed inizio luglio, la costituzione di un governo di unità nazionale, che ponga fine alla politica divisoria e solo pro sciita che al-Maliki ha imposto nei suoi due mandati. Neanche l’irritazione crescente dell’ayatollah al-Sistani, che non vede di buon occhio l’attuale premier e favorevole ad un esecutivo che includa sunniti e curdi, sembra smuovere il fronte interno.

Intanto, il Paese rimane nel caos. Gli scontri continuano sia nelle regioni del nord-ovest conquistate dall’Isis, sia nei dintorni di Baghdad e nella raffineria di Bajii. I due maggiori alleati, Usa e Iran, hanno negato nel frattempo un aiuto militare diretto.

La visita del segretario di stato Kerry di fine giugno, che ha visto colloqui con molte personalità di rilievo irachene, intendeva sensibilizzare gli apparati politici iracheni sulla necessità della costituzione di un fronte comune: l’Amministrazione Obama si è limitata ad inviare sul posto trecento consiglieri militari, mentre ha negato di voler intervenire con i propri soldati.

L’Iran, sul cui confine si gioca una delle partite più importanti di questa crisi, ha sì inviato specialisti e veicoli di supporto all’esercito regolare iracheno, ma rifiuta un intervento militare diretto, a cui è contrario quasi l’intera opinione pubblica.

Circa 1500 sono i morti dall’inizio di questo conflitto. L’appello lanciato da al-Sistani all’intero Paese ha mobilitato 2,5 milioni di volontari che si sommano ai circa 20 mila soldati dell’esercito regolare. Queste cifre ci raccontano di una crisi trasformatasi in una guerra giocata a metà strada tra il fronte interno e quello siriano da cui. Nonostante sia stato eletto il 20 aprile, il Consiglio dei Rappresentanti non si è ancora espresso né sul presidente del parlamento né sul capo dello Stato e la formazione di nuovo esecutivo che escluda la guida di al-Maliki sembra un lontano miraggio.

Se l’aspetto politico continuasse a rimanere immutato, l’attuale conflitto potrebbe tramutarsi in instabilità permanente. Usa e Iran, così come la comunità internazionale, deve aumentare le pressioni affinchè il quadro istituzionale iracheno divenga compatto e la fazione sunnita interna si svincoli dall’Isis.

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Il lungo scivolo e la sindrome del combattente. L’altro lato dell’utilizzo dei droni per missioni di targeted killing.

Difesa di

Quando la minaccia è il terrorismo asimmetrico, la risposta è altrettanto asimmetrica. La vittoria in uno scontro è basata sull’asimmetria, se così possiamo dire, dell’utilizzo delle risorse disponibili. I problemi sorgono quando, per debellare una minaccia, si finisce per causarne indirettamente un’altra, più pericolosa.

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L’utilizzo dei droni (arma tra le più controverse ma sicuramente tra le più utili) ha modificato ulteriormente i conflitti moderni, rendendola l’arma più asimmetrica tra le armi asimmetriche. Ma fin qui, se gli obiettivi fossero sicuri e mirati, non ci sarebbe nulla di scandaloso. Il cosiddetto “targeted killing” ha avuto un esponenziale crescendo in questi ultimi anni nelle operazioni militari. L’utilizzo, in questo caso, di droni da parte di Stati nei confronti di singoli individui al fine di eliminare il portatore di una minaccia o la minaccia stessa sembra essere la nuova frontiera delle operazioni militari. L’impiego massiccio di questo tipo di tecnologia non riesce però ad evitare che, all’interno delle statistiche, finiscano per essere riportati anche target che sono tutt’altro che sensibili. Le vittime civili legate all’utilizzo dei velivoli senza pilota come armi di precisione sono un aspetto ormai innegabile di questa nuova politica dei conflitti. Quello che dovrebbe preoccupare maggiormente è l’effetto che questi danni collaterali hanno sulla popolazione inerme che diventa protagonista del conflitto in atto. Sono cioè partecipi di attacchi (che spesso hanno tra le vittime bambini) che sebbene abbiano l’obiettivo di essere precisi, spesso non riescono ad esserlo.

Il risentimento che l’utilizzo di queste armi crea nelle popolazioni sta mettendo seriamente a rischio la strategia e la politica che ci auguriamo sia dietro queste operazioni militari, preparando un lungo e pericoloso scivolo su cui gli Stati Uniti ed i loro alleati in possesso di tale tecnologia faranno meglio a non incamminarsi. Il senso di onnipotenza che questi nuovi droni creano, rende gli eserciti che li posseggono destinatari di un odio ed uno sdegno ancora più profondo, viscerale, anche da parte di chi non ne ha mai visto uno. E’ quanto ammesso dal Generale McChrystal, ex comandante forze ISAF in Afghanistan. Lo stesso presidente Karzai si era pubblicamente esposto affermando di non accettare missioni statunitensi di questo tipo sul territorio afgano, in seguito alla conferma dell’uccisione di due bambini. Ciò che è sicuro, è che il numero delle nazioni che si stanno dotando di questa tecnologia sta aumentando. E ne è aumentato il loro impiego.

Al crescere di una tensione che sta creando sempre maggiori obiezioni interne e sempre maggior odio esterno verso governi che legittimano l’uso massiccio di queste armi, dovrebbe accompagnarsi un pubblico dibattito legale e sociale su questi temi. Sarebbe bene far uscire fuori da questa patina di mistero la nuova guerra dei droni, per evitare che in Pakistan, in Afghanistan, in Iraq e altrove si scateni quella che possiamo definire la “sindrome del combattente”. Non esistono zone neutrali, tutte le persone sul terreno sono considerate combattenti. In sintesi quello che esprimeva il Maggiore David Stockwell in merito ad un raid statunitense nella missione “Restoring Hope” in Somalia, dopo che erano state accertate sessanta vittime civili. L’ironia della sorte è che per mezzo dell’utilizzo spesso opinabile della tecnologia dei droni, la sindrome da combattente si sta diffondendo per inerzia in maniera massiccia proprio a causa dell’indiscriminato utilizzo di tali armi, facendo aumentare il numero di volontari che si arruolano in questa o quella milizia locale perchè esausti delle continue vessazioni, privazioni e perdite civili cui assistono e che non riescono a spiegarsi. Arab News riporta che, secondo Human Rights Watch, il fronte dell’ISIS in questi ultimi mesi ha reclutato giovani ragazzi (in alcuni casi bambini) come cecchini. I video li riprendono sfilare sui convogli insieme ai loro fratelli soldati, proprio come nelle migliori tradizioni delle guerre dell’ultimo mezzo secolo.

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Crisi Ucraina, la politica doppiogiochista di Poroshenko e il silenzio assordante degli Stati Uniti

EUROPA di

Il piano di pace e l’accordo con l’Ue firmato dal neo presidente dimostrano che la vera partita è tra Russia e Nato, dove il rifiuto di Putin di prolungare il cessate il fuoco chiesto si contrappone alla richiesta di Rasmussen di istituire un fondo fiduciario per Kiev

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Negli ultimi tempi la crisi in Ucraina sembra diventata un gioco di specchi tra i diversi attori in campo. Da una parte assistiamo ad un atteggiamento doppiogiochista del presidente Poroshenko, che strizza l’occhio sia all’Ue sia alla Russia. Dall’altra c’è Putin, possibilista rispetto al piano di pace proposto da Kiev, ma irritato di fronte all’accordo di associazione firmato da questi ultimi, dalla Georgia e dalla Moldova con l’Europa.

Nelle ultime due settimane, abbiamo assistito ad un atteggiamento compassato degli Stati Uniti: Obama, così come i membri della sua Amministrazione, non si sono esposti in prima persona sugli ultimi avvenimenti. Ma anche in questo caso possiamo parlare di gioco di specchi.

A fronte degli scontri che sono proseguiti malgrado il cessate il fuoco proclamato da Kiev, Poroshenko ha cercato di muovere a suo favore le pedine sullo scacchiere proponendo un piano di pace a cui, sia Putin sia i leader europei, hanno risposto favorevolmente. Disarmo dei filorussi, creazione di una zona cuscinetto al confine con la Russia, salvaguardia dei poteri locali e della lingua russa: sono questi i punti salienti proposti dal neo primo cittadino ucraino. Punti che evidenziano come il “re del cioccolato” stia giocando la sua partita su due fronti. Quello russo, il più caldo, in cui la questione più importante si chiama “guerra del gas”. Quello europeo e quello Nato, da cui l’Ucraina cerca di avere un supporto sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista militare.

E se, ancora in apparenza, i giochi sembrano essere a due tra Ucraina e Russia, questa crisi geopolitica è tornata ad acuirsi non appena Europa e Nato sono rientrare materialmente in gioco. L’adesione all’Ue di Ucraina, Georgia e Moldova, infatti, ha avuto l’effetto di irritare Putin, che a maggio aveva firmato con i paesi ex sovietici l’accordo sull’Unione Euroasiatica. L’Amministrazione russa ha in più denunciato il possibile aggravarsi della spaccatura in due della società ucraina.

E se non bastasse il piano economico varato dall’Ue per aiutare Kiev nel pagamento delle forniture di gas, abbiamo assistito pure ad una escalation verbale tra Russia e Nato. Le migliaia di soldati russi schierate al confine ucraino hanno spinto il segretario generale Rasmussen a minacciare nuove sanzioni e a spingere questo organismo internazionale a creare “un fondo fiduciario a sostegno dell’esercito dell’Ucraina”.

Di contro, il rifiuto della richiesta di Putin di prolungare il cessate il fuoco da parte di Poroshenko ha scatenato la dura reazione di Mosca. Il ministro degli Affari Esteri Lavrov ha accusato gli Usa di aver influenzato questa scelta e di muovere i fili della politica estera ucraina. Malgrado gli accordi tra Ucraina, Russia, Germania e Francia sull’istituzione di guardie di frontiera ucraine e sull’impiego degli osservatori Ocse al confine, l’ultimo ping pong di dichiarazioni evidenzia che la vera partita si gioca tra l’ex Unione Sovietica da una parte e gli Usa e la Nato dall’altra. Il silenzio di Obama delle ultime settimane è stato apparente, assordante. E la riedizione della politica dei blocchi contrapposti è già in atto.

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Giacomo Pratali
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